di TANO GULLO
E’ morto com'è vissuto: soavemente. Sabato, dopo il frugale pranzo, si è seduto nella sua poltrona del pisolino, ha reclinato la testa e ha chiuso gli occhi per sempre. La morte dei giusti. Novantasette anni, spesi dall'età della ragione in poi, per il bene, per i bisognosi, per predicare pace. Il pastore valdese Pietro Valdo Panascia, sposato e padre di due figli, Arnaldo e Giovanni, ora riposa nel cimitero di Pachino, il paese in cui ha messo radici la sua famiglia, originaria di Ragusa. Lui però è nato a Reggio Calabria, dove il padre, pastore valdese anch'esso, dopo il terremoto del 1908 era stato inviato per onorare la sua missione evangelica.
Ieri durante i funerali nella chiesa di via Spezio, padre Nino Fasullo, redentorista, ha chiesto scusa a nome della Chiesa per le miopie di cui si è resa colpevole, soprattutto negli anni bui quando era adusa voltarsi da un'altra parte mentre la mafia scorrazzava nel Far west della città di nuovo cemento. Si riferiva a un fatto ben preciso don Nino: a quella strage del 30 giugno 1963 a Ciaculli in cui con la Giulietta imbottita di tritolo saltarono in aria cinque carabinieri e due soldati dell'esercito (altre due vittime vennero freddate dal piombo lo stesso giorno a Villabate). Mentre santa romana chiesa, qui guidata dal cardinale Ernesto Ruffini, taceva, la chiesa protestante di padre Panascia sette giorni dopo l'eccidio riempiva i muri di manifesti che condannavano la violenza e il silenzio: °'È Dio che ordina di non uccidere!", l'esortazione finale a caratteri cubitali.
Perfino il papa, allora Paolo VI, fu scosso da quell'appello alle coscienze e tramite monsignor Angelo Dell'acqua, sostituto della segreteria di Stato, fece sussurrare a Ruffini che forse qualche iniziativa contro quell'escalation di violenza andava presa. Ma la risposta fu gelida. Si sa come la pensava il cardinale di Palermo: la mafia per lui non esisteva, era solo un'invenzione di chi voleva infangare la Sicilia. Altro che atti propagandistici dei valdesi, quel che serviva erano il volontariato e le preghiere.
Cominciamo con il genitore di Pietro Valdo, Biagio, un ragusano tosto che va a fare l'operaio a Brescia. Qui diventa evangelico e ritorna nella sua terra a praticare il verbo. Comandato a Pachino, presto si scontra con le male piante che allignano da sempre, come la gramigna, nell'Isola: gli usurai. Il giovane pastore raduna gli uomini di buona volontà del paese e con loro fonda la Banca di credito cooperativo. Gli usurai sono serviti. Ora artigiani e contadini possono trovare quei soldi indispensabili per lavorare senza farsi strozzare dagli sciacalli.
Poi finisce in Calabria, dove il 13 aprile del 1910 nasce Pietro Valdo, e in tanti altri luoghi. Questi seguendo le orme paterne si fa zingaro della fede. Reggio, Genova, Sampierdarena, Campobasso e Messina, dove incontra Pina Pintaldi, la donna di tutta -la vita, le sue tappe prima di diventare stanziale a Palermo. Sono anni difficili, la chiesa dei Ruffini considera gli evangelici eretici da scomunicare, anche la gente stordita da una religiosità pagana è diffidente. Ma lui non molla. Grazie a una donazione di una sorella valdese emigrata oltreoceano, agli inizi degli anni Cinquanta fonda il Centro diaconale nel quartiere Noce. Diventa presto un punto di riferimento fondamentale per tutti i cattolici impegnati, soprattutto dopo le speranze accese dal Concilio di papa Giovanni. La Noce è un quartiere difficile, la presenza della mafia è capillare. Il Centro si riempie presto di bambini strappati alla strada e alla malavita e dei ragazzi di quella borghesia che vuole sfuggire al bigottismo della religione ufficiale. Poi sarà un'oasi di speranza per immigrati e infelici. Da lì al cortile Cascino - dove Danilo Dolci inizia i suoi scioperi della fame per costruire, strade di campagna, dighe e speranze - il passo è breve. Panascia è al fianco del sociologo triestino. Il terremotodel Belice nel Sessantotto lo vede ancora una volta in prima fila insieme ai suoi fratelli valdesi. Sfangano e costruiscono in quell'inverno di terrore.
Panascia è un punto di riferimento per tutti gli evangelici, che in Sicilia si erano sparpagliati - a Riesi la comunità più folta - dopo lo Statuto con cui nel 1848 Carlo Alberto garantì la libertà di culto. Con la sua voce pacata ha sempre evocato una chiesa scevra da miracoli e santificazioni. A proposito del dilagante culto per padre Pio, oggi santo, dice: «Come protestanti abbiamo sempre guardato con sospetto alla venerazione per i santi. Ma adesso si esagera. La gente va a caccia di miracoli, cerca nuove divinità. E quel che preoccupa è che la chiesa cattolica lascia fare. Per i vescovi, come ai tempi di Ruffini, tutto va bene. Quel che a loro importa è che non ci siano rapporti prematrimoniali, né nozze civili».
È stato dietro ai cambiamenti per tutta la sua esistenza. A novant'anni impara a usare il computer e con il nuovo strumento scrive il suo ultimo libro "Storia di una famiglia valdese" (l'altro suo testo è "Costruire speranza"). Sempre a Novant'anni rifà gli esami per la patente e, nonostante un infarto, continua a girare per la città con la sua vecchia Giulietta 1300 fino a poco prima della morte. Un automobilista spericolato, a dispetto di quella figura minuta, mite e rassicurante, con baffetti e capelli bianchi e un paio di occhialini da vecchio nonno.
Fonte:
La Repubblica 23-10-2007 il 28-10-2007 - Categoria:
Cronaca