Il problema non è tanto digerirlo, che è già un'impresa, quanto prepararlo. Perché il garum è un po' come la Coca Cola: se ne sconosce la ricetta. Perciò l'idea venuta a Portopalo di rifare la salsa di pesce che tanto piaceva ai romani suscita curiosità e riavvia la ricerca storica sui loro costumi. Pesce abbiamo detto, ma quale pesce? Acciughe, vope, sgombri, alici, pesce azzurro di altro genere? E quale procedimento è gastronomicamente corretto? Quello abbreviato, in uso oggi in Giappone e Indocina dove offrono un succo che si chiama «nouc nam» spacciandolo per il vero garum, o quello classico che richiedeva non meno di quattro mesi? E poi: si troverà qualcuno che lo mangerà? Anzi, che lo berrà? Sì, perché il garum non si è capito bene se sia un liquore, un condimento, una polpa o una pastetta. Plinio il Vecchio, che era delicatino ma che pure di cose naturali ne vide tante, licenziò sbrigativamente il garum con il bollo di «liquore di pesce marcio». E Marziale, che di sapori e odori forti se ne intendeva assai, lo giudicava semplicemente nauseabondo. Verrone lo ritenne invece uguale a una salamoia riportandolo così nella categoria degli alimenti. Quando in un'anfora di Pompei ne fu trovata traccia (la sola sostanza organica arrivata fino a noi) grande dovette essere il disgusto per l'odore che metteva. Passati duemila anni, sulle vie dell'archeologia gastronomica, stiamo provando a ritrovare un gusto. Se è quello giusto, sapremo se i romani impazzivano per un nettare di ambrosia o per un'olla podrida.