Brancati i fascisti e pasolini

Sono un «indignato speciale». Così mi definisce, nella prima pagina della «Sicilia» di ieri, il mio amico Salvatore Scalia. E mi fa onore: fra tutte le professioni possibili, l'indignazione mi pare la più nobile. Ma veniamo ai fatti. Venerdì scorso, inaugurando il premio Brancati-Zafferana assieme ad alcuni studiosi dello scrittore siciliano, ho speso alcune parole di dissenso, altre di polemica, intorno a una pagina della «Sicilia» dallo stesso Scalia, quel giorno, curata. La pagina in questione conteneva due articoli: nel primo si citava e commentava l'ennesima lettera al Duce scritta da un letterato italiano negli anni del fascismo. La firma era di Brancati, non nuovo - del resto - a questi omaggi come non nuova è la notizia del suo giovanile fascismo. Ma proprio in quegli anni Brancati stava vivendo una crisi salutare, una conversione all'antifascismo testimoniata da romanzi come Gli anni perduti, dagli articoli sull'«Omnibus» di Longanesi e dal carteggio con un luminoso antifascista come Giuseppe Antonio Borgese. Una conversione, la sua, ovviamente lenta e tormentata (da qui, oltre che dai bisogni materiali, certi tardivi sussulti), ma drastica e vissuta all'insegna d'un rigoroso senso della responsabilità intellettuale, se Brancati (al contrario dei Vittorini, dei Pratolini e di tutti gli altri convertiti di quegli anni, che si limitarono a traslocare da destra a sinistra i loro «astratti furori») s'impose di mutare modo di scrivere e di pensare, e di espiare abbandonando gli agi e il successo della capitale, ricominciando da capo nell'esilio della «noia» di Caltanissetta. Non so quanto queste lettere al Duce di quasi tutti gli intellettuali italiani servano a precisare la loro ideologia. Piuttosto, svelano privati scenari di bisogno e d'umana debolezza. Il che non toglie che sia lecito pubblicarle, com'è lecito dissentire: come feci io quella sera, col tono pacato di chi cerca il confronto.

Fui decisamente polemico, invece, a proposito di un altro articolo, che Scalia non cita affatto, indicando a torto la causa della mia «indignazione» nella pubblicazione della famosa lettera. La pagina di venerdì conteneva, infatti, un ulteriore articolo a proposito del premio Brancati, che negli anni Sessanta disponeva d'una giuria di cui facevano parte Alberto Moravia, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini. In quell'articolo un estremista di destra di quegli anni raccontava, vantandosene con littoria baldanza, la spedizione punitiva organizzata da lui e dai suoi amici del Guf di Catania contro quella giuria sinistrorsa, al culmine della quale quei compiti giovinetti si produssero (cito) in un «lancio di finocchi contro i giurati e più particolarmente contro Pasolini per la sua dichiarata omosessualità». Da rabbrividire. Ben più che indignazione, dunque, espressi e tuttora esprimo: rabbia e vergogna. E di questo, caro Scalia, mi lamento: di quest'offesa agli omosessuali, agli intellettuali, alla dignità umana. Da tempo in molti deprecano un'annosa e soffocante egemonia della sinistra sulla cultura italiana. Ma se l'alternativa è il lancio dei finocchi e il linciaggio del diverso, mi auguro che quell'egemonia duri in eterno.

Antonio Di Grado

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Pasolini era ammirato perché dava voce ai ragazzi di vita, noi avremmo dovuto censurare la testimonianza diretta, anche se esecrabile, di un fascista. Brancati subì la censura del Duce e di Andreotti, a noi tocca quella di un indignato speciale. (s.s.)
Fonte: LaSicilia.it il 28-09-2004 - Categoria: Cultura e spettacolo

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