Da l'Espesso
http://espresso.repubblica.it/dettaglio-local/Rudin%C3%AC-dimenticato-Cento-anni-di-silenzio-dopo-il-sette-e-mezzo/2036480/6
Fonte
Nessuna commemorazione per l´anniversario della morte dell´ex sindaco di Palermo
Rudinì dimenticato
Cento anni di silenzio
dopo il "sette e mezzo"
Lino Buscemi
Le tante cose buone da lui fatte cancellate dalla repressione seguita alla rivolta del 1866 Un secolo fa moriva il marchese Antonio Starrabba di Rudinì, il sindaco che si oppose alla rivolta del "Sette e mezzo". Sono passati cento anni dalla sua morte e nessuno (istituzioni cittadine in testa) ha pensato di organizzare una commemorazione. Per una curiosa coincidenza il suo nome, in questi giorni, riecheggia lo stesso in tutta Palermo per motivi, diremmo, commerciali. L´immobiliare proprietaria dello storico palazzo, in cui di Rudinì nacque e visse gli anni della giovinezza, ha deciso di metterlo in vendita. In via Maqueda, all´altezza dei Quattro Canti - lato monte - la pubblicità è in bella mostra. Il destino si conferma, ancora una volta, cinico nei confronti di un uomo che, fra alti e bassi, la città amò poco e lui fece, in momenti decisivi e drammatici, quasi niente per ingraziarsene gli abitanti. Tuttavia l´oblio non si giustifica e men che mai la cancellazione dalla memoria cittadina di un uomo che, sia pure in maniera discussa (ma anche con risultati di rilievo) ricoprì importantissimi incarichi pubblici, a Palermo (dove nacque il 6 aprile 1839) e a Roma (dove si spense, sessantanovenne, il 7 agosto 1908).
Antonio Starrabba, marchese di Rudinì e principe di Giardinelli, fu più volte ministro e presidente del Consiglio ed anche il più giovane sindaco che Palermo abbia mai avuto, essendo stato chiamato, nel 1863, a ricoprire l´importante ufficio a soli 24 anni (dopo di lui il primato lo detengono, rispettivamente, Salvo Lima e Leoluca Orlando). La sua giovinezza è contraddistinta dal conseguimento, presso la nostra Università, della laurea in legge e, a dispetto dell´appartenenza al ceto nobiliare, dalla sua convinta adesione alla causa per l´Unità d´Italia al punto di partecipare attivamente all´infelice insurrezione del 4 aprile 1860. Sfuggì per miracolo alla reazione borbonica e a un ordine di cattura, rifugiandosi prima a Genova e poi a Torino. Nella capitale del Regno di Sardegna governato dal Cavour, ebbe importanti incarichi burocratici che non lo distolsero, frattanto, dal proposito di convolare a nozze con una giovane piemontese, dal futuro, come vedremo, non felice.
Dopo il successo dei Mille di Garibaldi, fece ritorno in Sicilia, ormai parte integrante del nuovo Regno d´Italia. Si occupò di politica comunale ed entrò nell´entourage del prestigioso sindaco Mariano Stabile. Il di Rudinì si fece notare per equilibrio e acume politico ed amministrativo. Apparve, pertanto, del tutto normale che il 10 agosto 1863, appunto a soli 24 anni, fosse lui il successore di Stabile. Restò saldamente al suo posto fino al 21 dicembre 1866. Si distinse come sindaco "del fare": bandì il concorso per la progettazione del teatro Massimo e realizzò Villa Garibaldi e altre importanti opere pubbliche e portò a compimento la rete di illuminazione a gas. Riorganizzò gli uffici comunali e praticò una politica di rigore nei conti pubblici. Un "anticipo" della politica finanziaria che egli porterà avanti, anni dopo, da capo dei governi della Destra, e alla quale appiopparono, con una dose di malizia, l´appellativo di «politica della lesina».
Il sindaco dovette però fare i conti, nell´estate 1866, con un popolo esasperato e deluso dalle tante promesse non mantenute dal nuovo Stato. Dopo l´epopea garibaldina i siciliani si convinsero che qualcosa sarebbe cambiata. Invece non successe nulla. La terra ai contadini e provvedimenti a favore di artigiani e commercianti, si rivelarono vere e proprie bufale. La tanta conclamata libertà e la concessione di una vera autonomia per la Sicilia, restarono semplici enunciazioni. I "piemontesi" si fecero ben presto conoscere per autoritarismo e per una organizzazione statuale centralistica e fiscale. Imposero più tasse ed avviarono un reclutamento di leva che provocò risentimenti e il fenomeno dei renitenti che si diedero alla macchia. Come se ciò non bastasse, il 7 luglio 1866, fu decisa la soppressione delle corporazioni religiose e l´incameramento, da parte dello Stato, dei loro ingenti beni. Nella sola città di Palermo, si ebbero, di colpo, effetti nefasti: diverse migliaia di mendicanti rimasero senza assistenza e la massa di artigiani e salariati stentò ad avere pane e lavoro.
Scontento era pure il ceto medio di estrazione intellettuale e di tendenze liberali. Gli unici soddisfatti erano i proprietari terrieri. La città e le campagne circostanti, al contrario, erano in ebollizione. La gente era pronta per l´ennesima rivolta. La quale scoppiò regolarmente il sabato del 15 settembre 1866 e si concluse nel pomeriggio del 22 settembre successivo. Per la sua durata passò alla storia con il nome di "Rivoluzione del sette e mezzo", nota anche come la "Rivoluzione dei senza capi e dei senza bandiera". Acefala e senza l´appoggio della borghesia palermitana. Tutt´ora non si sa a quanto ammontino coloro che caddero sotto il piombo sabaudo.
Per il marchese di Rudinì fu un duro colpo con conseguenze anche personali. Come è riportato nell´ormai introvabile saggio di Mauro De Mauro dal titolo "Sette giorni e mezzo di fuoco a Palermo" (edizioni Andò), lunedì 17 settembre 1866 dei «guerriglieri mossero dal convento dei Crociferi e camminando sui tetti raggiunsero il palazzo del sindaco Rudinì. Calatisi attraverso i lucernari lo saccheggiarono e rovesciarono in strada mobili e suppellettili… che servirono ad erigere una barricata all´altezza della chiesa di San Giuseppe a 40 metri circa dal municipio. La signora di Rudinì, si rifugiò in casa dei vicini…». Si apprese, qualche giorno dopo, che la povera signora, in conseguenza dello spavento, perse la ragione.
Malgrado il saccheggio del palazzo e la pazzia della moglie, il sindaco fronteggiò con fermezza l´imperante caos cittadino. Non si perse d´animo e organizzò la controffensiva contro i rivoltosi dal palazzo delle Aquile. La sua strategia, permise alle numerose truppe regie, in tempo avvertite, di giungere a Palermo e ripristinare l´ordine mediante una brutale repressione. Senza pietà si ordirono vendette con indicibile spargimento di sangue per le vie cittadine. Si toccò con mano la crisi dello Stato unitario e la repressione fu festeggiata, manco a dirlo, da pochi nobili. Il giovane marchese, quale premio per aver fatto fallire la rivolta, ebbe onori e la nomina a prefetto di Palermo e, nel 1868, di Napoli. Nel 1869, non ancora deputato del Regno, ricevette la nomina a ministro degli Interni nel governo del generale Menabrea. Sul finire dello stesso anno venne eletto deputato nel collegio di Canicattì e ben presto si guadagnò i galloni di leader della Destra parlamentare. Nel febbraio del 1891, con l´appoggio di alcuni settori della Sinistra, sostituì Francesco Crispi alla presidenza del Consiglio.
In circa 15 mesi di governo il di Rudinì cercò di invertire la politica estera del suo predecessore rinnovando il trattato della Triplice alleanza ed impegnandosi a migliorare i rapporti con la Francia. In politica interna attuò un corsevatorismo illuminato e propugnò un timido decentramento amministrativo. Tornato al potere nel 1896 il marchese riuscì a fare approvare dal Parlamento la modifica all´ordinamento comunale e provinciale introducendo l´eleggibilità, su base locale, dei sindaci dei Comuni. Dopo la sconfitta di Adua, smantellò la megalomane politica coloniale crispina, firmando la pace con le potenze europee (Trattato di Addis Abeba).
Intanto il Paese, proprio in coincidenza con i suoi ultimi governi, attraversava una profonda crisi politica e sociale e il di Rudinì non si sottrasse dall´adottare misure repressive come i decreti di stato d´assedio (imposto nel 1898 a Milano, dove addirittura si fece uso dei cannoni contro il popolo. Tragico il bilancio: 118 morti e 400 feriti) e gli ordini di scioglimento delle organizzazioni politiche socialiste e cattoliche. Non riuscì, questa volta, a neutralizzare l´ostilità della Camera dei deputati e la forte opposizione nel Paese. Si ritirò definitivamente dalla scena politica e parlamentare nei primi del ‘900, dopo aver dato vita, con il gruppo liberal-moderato, a una forte opposizione nei confronti dei governi guidati da Giolitti.
I suoi rapporti con Palermo si erano nel tempo affievoliti anche a causa dei suoi impegni di statista. Seguiva da Roma i suoi interessi di grande proprietario terriero. La città non lo cercò e lui non fece nulla per compiere un gesto di riconciliazione. La ferita del "sette e mezzo", evidentemente, stentava a rimarginarsi. Anche i suoi due figli, Carlo e Alessandra (quest´ultima balzata alla cronaca per essere stata l´amante di Gabriele D´Annunzio, si farà monaca carmelitana) con la città ebbero rapporti sporadici. (07 agosto 2008)Torna