Gli anglo-americani, che presero terra vicino a Siracusa, furono aiutati da Cosa nostra. Con la collaborazione dei picciotti d'oltreoceano e in cambio di molti favori.
La Sicilia non era ancora nelle mani degli anglo-americani: la battaglia, iniziata il 10 luglio 1943, sarebbe durata 38 giorni. Tre ufficiali britannici, all'inizio dell'inferno di fuoco, vennero cordialmente accolti dai maggiorenti della campagna tra Pachino e Siracusa. Nella frescura dei vigneti sorseggiarono incuriositi un vino scuro, destinato a diventare noto come il Nero d'Avola. E fecero il più bel complimento ai siciliani: «Questo può sostituire il whisky».
Il generale americano George Patton, primadonna dai modi un po' rozzi, qualche giorno dopo andò a visitare la Valle dei Templi, dietro la quale c'era una Agrigento stremata dai bombardamenti e dalla scabbia. Dinanzi al Tempio di Ercole chiese se i «danni» fossero stati causati dai suoi ragazzi. Lo tranquilizzarono spiegando che la colpa era di un precedente conflitto. E Patton: «La Prima guerra mondiale?». «No, eccellenza, ci riferiamo alla Seconda guerra punica». Aneddoti gustosi citati da Alfio Caruso nell'ultimo suo libro, Arrivano i nostri (Longanesi), meticolosa ricostruzione dello sbarco alleato in quella terra che Lord Byron definì così: «Quell'isola dell'Africa che gli italiani chiamano Sicilia».
Gli anglo-americani guidati dal maresciallo Harold Rupert Alexander, con sangue irlandese ed erede dei nobili di Caledon, misero in conto certamente un gran numero di perdite umane, ma anche la buona accoglienza dei siciliani, umiliati dai fascisti («Quei barbari del Nord»), da secoli vicini alla cultura e al patriziato inglesi e così inclini all'indipendenza da illudersi di potersi staccare dallo Stivale e sedere, addirittura, al tavolo dei vincitori a guerra conclusa. Le truppe alleate prepararono il terreno facendo leva su complicate e a volte misteriose alleanze.
A confluire in una sorta di intesa politica furono: i massoni, l'ala vaticana più vicina a Gian Battista Montini (futuro papa), gli indipendentisti siciliani, Maria José di Savoia, la mente più illuminata della famiglia reale che frequentava intellettuali come Ugo La Malfa e, non ultimi, i mafiosi.
Le «coppole storte» presentavano due vantaggi: avevano il dente avvelenato con il regime fascista (ricordavano ancora i colpi inferti dal prefetto Cesare Mori negli anni Venti), e un sacco di parenti importanti in America. Tra questi ultimi uomini del calibro di Lucky Luciano, il cui nome vero era Salvatore Lucania. Proveniente da Lercara Friddi (Palermo), aveva il controllo dell'East Side di New York. L'uomo che sarebbe poi stato definito dal settimanale Time «il più grande fuorilegge del XX secolo» sognava di sedersi sul Vulcano, ossia sul vertice di Cosa nostra. Grazie anche a ciò che pensava Edgar Hoover, dispotico direttore dell'Fbi, ossia che la mafia semplicemente non esisteva, i «bravi ragazzi» dettero una mano alle autorità statunitensi dopo l'incendio (doloso) della nave Lafayette (1942) nelle acque dell'Hudson. Si sospettava la presenza di sabotatori nazisti. Lucky era in galera, ma era pur sempre il numero uno, quindi... Risultato: la tranquillità tornò nel porto di New York.
E i «bravi ragazzi» furono utili in Sicilia, dove i tank anglo-americani misero in scena la prova generale della nuova Europa. Furono i «carusi» con la lupara a raccogliere informazioni su postazioni e difese: lavoro essenziale visto che a Washington si erano accorti che mancavano mappe civili e militari dell'isola, studi sul profilo delle coste e sulla profondità dei fondali. Coppole autorevoli come Vito Genovese, Vincent Mangano e Frank Costello si dettero da fare. La mafia utilizzò anche i pescherecci in spola col Nord Africa.
Tutto serviva per garantire una rete di protezione e di accoglienza. Lo stesso Lucky Luciano rivelò (nel 1959) che nell'anno dello sbarco venne ingaggiato un giovane laureato in legge di Patti: si chiamava Michele Sindona. Nell'isola «invasa da tutti e conquistata da nessuno», come dice Alfio Caruso, gli anglo-americani approfittarono di Cosa nostra, così abile nel controllo del territorio e dei generi di prima necessità. Con l'aiuto dei «paisà d'oltreoceano». A facilitare il compito dei liberatori si aggiunsero l'ambiguità della Marina italiana, la disorganizzazione militare, il patetico scambio di accuse tra Benito Mussolini e Adolf Hitler, il clima del «tutti a casa» instauratosi ancora prima dell'8 settembre e la convinzione dei siciliani che il fascismo era ormai un morto che cammina in tempi in cui non s'immaginava il crollo del regime.
I siciliani, e non solo i capibastone o i latifondisti o gli indipendentisti sognatori, fecero a gara per acquisire benemerenze presso il nuovo dominatore. I notabili accolsero con sollievo gli ufficiali anglosassoni, facendoli passeggiare nei corridoi dove erano allineati i ritratti degli antenati e accomodare nei salotti dove i più colti facevano notare che era stata la Sicilia e non l'Inghilterra a inventare il parlamento. Poco importava se Patton mostrava la spocchia yankee: «I siciliani sono gente allegra, apparentemente paga del proprio disordine e sarebbe un errore cercare di elevarla al nostro tenore di vita, che non apprezzerebbe e di cui non sarebbe soddisfatta».
A conquista terminata, si doveva gestire la fase più difficile. Nasceva il banditismo (2 mila fuorilegge in pochi mesi), mancavano punti di riferimento istituzionali e i mafiosi rialzavano il mento, avendo preso confidenza con i mitra, dopo secoli di lupara. Scrive Caruso: «La mafia veniva guardata con occhio benevolo persino dagli inglesi, prontissimi nel bere la frottola della presunta "onorata società" e dei presunti "uomini d'onore". Ai riconosciuti maestri dell'intrigo andava a sangue l'immenso ballo in maschera che era la società siciliana, dove da 3 mila anni ciò che appare non è e ciò che è non appare».
Insomma si dette la stura a giochetti politici destinati a lasciar traccia nel futuro. Non per caso nel febbraio del 1944 sulla Balilla nera che arrancava sulla strada per Montelepre c'era un uomo con i Ray-Ban (roba da far ingelosire tutti) e con la divisa americana. Era Vito Genovese, ben inseritosi nella corte del vicegovernatore della Sicilia liberata, l'americano Charles Poletti. Scese dall'auto e andò incontro a Salvatore Giuliano, il bandito numero uno e considerato un'arma da usare contro i comunisti. Genovese riassume in sé il dna mafioso: era diventato commendatore della Corona per aver ordinato l'uccisione, a New York, di Carlo Tresca, giornalista anarchico e antimussoliniano, poi fece affari nell'import-export con Poletti: insomma, sempre alleato col potere a condizione di ricavarne vantaggi. olte «coppole storte» diventarono sindaci. Anche Sindona riuscì a ottenere una lettera di raccomandazione dal vescovo di Messina presso la Curia di Milano. Era l'inizio di una carriera.
di Pier Mario Fasanotti