di CARMELITA CELI
MARZAMEMI - Chissà se alla Magnani avrebbe fatto piacere parlare ad una folla trepidante e tutta per lei e intanto udire, a pochi passi, grida giubilanti e beluine non per lei ma all'indirizzo del suo Massimo Serato. Fatto sta che Valeria Golino incassava le urla di centinaia di fan che assediavano Riccardo Scamarcio con semplice, sovrana, disincantata saggezza - lei che in fondo è la vera (e sola) cellula artistica dell'“entità” Golino-Scamarcio, al Festival del Cinema di Frontiera che consegnava alla Golino il Premio WindJet ed un omaggio tutto in celluloide con il trittico «Respiro» di Crialese, «La guerra di Mario» di Capuano, «Texas» di Paradivino. Bella, dirompente, intelligente. Pensante. L'abito colorato ed “aereo” che la fascia appena senza ostentazioni muliebri ed una “nuova” zazzeretta, corta e liscia, nuova fino a un certo punto, a giudicare dal clip che, in piazza Regina Margherita, te la riconsegna nelle sagome più diverse. Camaleontica soprattutto nel suo “dentro” di artista e d'interprete. La stessa che, in un viaggio lungo 60 film (tra non molto dovrebbe essere Eleni, la profuga greca del film di Anghelopoulos con a fianco Harvey Keitel, Bruno Ganz e William Dafoe) da sola o bene accompagnata ha saputo scegliersi le sfide. «Lo fai solo quando puoi, attraverso i tuoi gusti e i tuoi interessi. E' un lusso fare solo ciò che vuoi: io sono stata fortunata perché è accaduto molte volte. A volte fai un film per soldi, altre perché vuoi andartene dal tuo paese e non sempre per motivi nobili.
Ma se hai l'agio di poter fare ciò che fai... Sessanta film... Non saranno stati tutti buonissimi ma li ho fatti sempre in assoluta buona fede».
Nel clip, pillole di «Rain man», «Leaving Las Vegas», «Fuga da Los Angeles», «Hot shots 1/2». In America ha trovato l'america?
«Ho abitato dieci anni a Los Angeles e ho fatto venti film negli States. Gente di enorme talento, la loro struttura è un'industria cinematografica, la nostra è solo un artigianato che, al momento d'importare produzioni americane, s'accontenta di materiale scadente che lì hanno già rigettato da un pezzo. Ho un gran bel ricordo di quella fase del mio lavoro, tornerei a farlo subito. Anzi, credo proprio che lo farò». C'è oltre ed altro che quei luoghi comuni made in Usa (modello: «Lo stiamo perdendo» urlato dietro ad una barella in un interminabile corridoio d'ospedale) che fanno saltare i nervi a Franco Battiato...
«Non è la sede per fare polemica ma il signor Battiato parla di un modo di far cinema che non conosce così come non lo conosce nessuno di noi italiani. Insieme all'abbattimento delle frontiere, il cinema annulla i generi chiusi: a me piace il cinema della verità e quello della menzogna, quello del sogno e quello del divertimento. Adoro, poi, il cinema d'autore, “piccolo”, difficile, meno commerciale ma che non per questo ha meno diritto d'esserci». A quest'ultimo sembrava ascriversi, all'epoca della sua uscita, «Respiro». Poi divenne un cult in men che non si dica. «Il buon cinema è sempre un miracolo. “Respiro” lo era già nel suo farsi: al di là della mia esperienza, quei tre mesi a Lampedusa hanno messo tutti in uno stato di grazia con una complicità rara al limite del rituale. E fu lì che scoprii che l'unico modo per salvarmi era parlare come loro. In lampedusano». E l'unico modo per salvarci, qui ed ora, è restare immobili. La Piazza è diventata la Valle del Bove: una lava di giovani “baccanti” armate di telefonini finalmente “erutta” sul palco Riccardo Scamarcio, “colpevole” del primo viaggio sentimentale a Marzamemi, l'anno scorso, durante le riprese del film di Zanussi. «Sono qui per accompagnare Vale...», quasi si scusa. «Eppoi... questo Festival... che ha un'aria così... festosa...». Massimo Serato l'avrebbe detta meglio.
Fonte:
LaSicilia.it il 30-07-2007 - Categoria:
Cultura e spettacolo