VITTORIA – Il confine tra la speranza e la disperazione è un diaframma: storie di uomini e di donne in fuga dalla miseria e dalla guerra in cerca di futuro. Scoglitti è divenuta il caleidoscopio di un'umanità alle prese con una globalizzazione che schiaccia ancora i più deboli e che non riesce a risollevare i due terzi della popolazione mondiale dalla povertà. La fuga diventa così passaporto di speranza verso la frontiera di un futuro meno gramo.
In questa umanità c'è anche spazio per quanti speculano sulla sofferenza. Scafisti al soldo di organizzazioni criminali compiono ogni giorno la spola tra Nord e Sud del mondo. Trasportano braccia utili alle industrie del Nord-Est e alle serre della Sicilia. Solo le tragedie riescono ad accendere i riflettori su questa umanità. La storia di Trabelsi Bechir, tunisino, 35 anni, è emblematica. Una carretta del mare lo ha portato due anni fa dalla Tunisia in Sicilia: una traversata avventurosa conclusa sulla spiaggia di Portopalo.
A differenza dei suoi connazionali, morti domenica sulla spiaggia di Scoglitti, lui ce l'ha fatta: è riuscito a entrare in Italia, trovare un lavoro e ottenere un permesso di soggiorno. La tragedia di Scoglitti ha riaperto in lui una ferita, gli ha fatto provare nuovamente quel senso di smarrimento che aveva quando, ormai sfinito, riuscì a raggiungere la riva: «Ricordo di avere nuotato per un tempo che mi è sembrato un'eternità, credevo di non farcela. Poi mi sono aggrappato con la forza della disperazione a quel “sogno” e sono riuscito a salvarmi».
Trabelsi Bechir oggi è perfettamente integrato: si è sposato con una sua connazionale, ha una figlia che frequenta la scuola italiana, fa parte della grande comunità di immigrati di Vittoria. «Quel giorno – dice trattenendo a stento la commozione – sono stato fortunato. Anche io potevo morire come quei poveretti...». La sua è una storia a lieto fine, diversa da quella tragica vissuta ieri dai suoi «fratelli» tunisini. Anche loro volevano raggiungere amici e parenti, anche loro speravano di trovare un lavoro in Italia: hanno finito, invece, per abbracciare la morte nella disperata ricerca di un sogno che il mare ha spezzato troppo presto.
Sulla spiaggia ieri sino a tarda sera è rimasto un anziano bracciante, tunisino anche lui, impiegato nelle serre di Vittoria, con regolare permesso di soggiorno. Aspettava suo figlio che non è mai arrivato. Ora spera che non abbia fatto in tempo a salire su quel disgraziato barcone. Ha consegnato alla Polizia una fotografia del figlio per verificare se il giovane non sia tra i nove cadaveri rinvenuti a mare e sulla spiaggia. Ammar Nabil, 25 anni, palestinese, racconta una storia diversa ma pur sempre storia di un'umanità ferita. Ha attraversato l'Egitto e il Libano prima di imbarcarsi in Tunisia. «Sono partito dalla mia terra per fuggire dalla guerra infinita con gli israeliani, per avere ancora una speranza».
Ammar, un ragazzo alto e robusto che sembra essere il leader carismatico dei clandestini, è ricoverato nell'ospedale di Vittoria. Accanto a lui due carabinieri assistono gli immigrati e traducono le loro dichiarazioni dall'arabo in italiano. «Per imbarcarmi – racconta il giovane palestinese – ho pagato un milione e mezzo di dinari (fra i settecento e i mille dollari, ndr). Ho scelto di venire in Italia per cercare lavoro, non aveva importanza la meta finale: Vittoria, Napoli o Bologna, l'importante era trovare un lavoro».
Nella stanza numero 68, al secondo piano dell'ospedale, i clandestini sono sistemati in un reparto riservato solo per loro. Oltre al palestinese in corsia sono ricoverati quattro marocchini e un tunisino. Tra loro anche un giovane maghrebino ricoverato in stato di coma. Contrariamente a quanto era stato sostenuto in un primo momento dai sanitari, potrebbe salvarsi. «Il paziente – spiega il primario Filippo Foresti – ha una ipossemia, cioè una sindrome da annegamento che ha provocato un coma di primo-secondo grado. Una situazione certamente grave, ma non irreversibile».
Fonte:
La Gazzetta del Sud On Line il 24-09-2002 - Categoria:
Cronaca