“Cunzava” i vini francesi e piemontesi
di Arturo Messina
“Dire Pachino vuol dire vino”! Proprio in questi giorni la cooperativa agricola interprovinciale Elorina, che è la più importante e la più longeva, ha celebrato alla grande il suo trentennale. Ne ho approfittato per incontrarmi con il prof. Rosario Ciccazzo, presidente fin dalla sua fondazione, docente di Chimica andato prima del tempo in pensione per dedicarsi anima e core alla gestione e allo sviluppo sempre più intenso della cooperativa, che per la generosità unica del suo prodotto, cerca di riprendere quota e si va affermando nelle località sempre più distanti, quali l’America e il Giappone, per farmi raccontare, sia pur brevemente, la sua suggestiva, gloriosa storia.
“Prima che si arrivi a dicembre - ha cominciato egli a dirmi - vorremmo che si scrivesse il libro della nostra esperienza, che abbiamo in progetto di fare e che sicuramente Libertà, tramite lei e il suo diretto vorrà darci generosamente una mano per realizzarlo e diffonderlo, Io mi sono dedicato a questa valorizzazione del nostro vino, che è il vanto di tutta la provincia di Siracusa, da quando sono tornato da Bergamo, dove insegnavo all’Istituto Commerciale Vittorio Emanuele, cioè dal ’78.
- Com’è nata la Cooperativa?
“E’ nata per volontà di alcuni Rosolinesi, che avevamo studiato, tra cui il famoso Padre Stefano Trombadore, nella cui stupenda vigna lei venne a fare le riprese televisive oltre dieci anni addietro”.
A questo punto mi sono ricordato di un episodio che voglio raccontare ai miei affezionati lettori. Avendo visto che alcuni operai stavano vendemmiando, mi sono rivolto ad uno di loro, un ometto anziano che faceva fatica ad arrivare a tagliare con le forbici, sollevandosi sulla punta dei piedi, i grappoli più alti, e gli ho domandato che uva era:
-Niura è! - mi fa lui continuando ad aggeggiare. -Sì - gli feci io -
Questo lo vedo; ma che tipo di uva è?
“A patri Trummaturi ci ’u dumannassi!”
E padre Trombadore mi disse che si trattava di Nero d’Avola. Quando gli domandai che vino produceva quell’uva, egli candidamente mi rispose di rivolgermi proprio al presidente Ciccazzo, il quale mi spiegò che dalla stessa uva che all’interno aveva la polpa bianca, si poteva fare il “pista ammutta”, se cioè si pigiava e si metteva subito in botte per ottenere il vino Rosè, il Ventiquattrore, se si faceva fermentare una giornata per fargli acquistare più colore e più gradazione, quindi il Quaratottore se si faceva fermentare due giornate per fargli acquistare il colore rosso e la maggiore gradazione...
“Sulla nascita di questo nome - mi spiega - ci sono varie interpretazioni, varie etimologie della parola; la più accreditata attualmente è che è un’uva la cui derivazione viene dall’arabo “calà aulisi”, calà in arabo vuol dire uva; qualcuno la fa derivare anche da “uva calabrese”, però l’accezione maggiore è la prima, perchè pare che il viticcio fosse nel passato coltivato nella zona più alta del territorio avolese, che è tra il mare e la collina che arriva fino a circa cinquecento metri, nel punto dove c’è l’antico castello di Ibla, che secondo la pronuncia inglese della I e l’apofonia della b è diventa e quindi Avola. Oggi quel viticcio è diventato famosissimo.. Quando lei è venuto a fare quella ripresa, il Nero d’Avola era poco conosciuto; in dieci anni ha acquistato una fama mondiale.. è stato decantato in tutto il mondo. Ciò grazie alla Cantina Sperimentale di Noto, grazie all’Istituto Regionale della Vite e del Vino, che ha fatto sperimentazioni importanti con questo vitigno, ma soprattutto grazie alla Cantina Interprovinciale Elorina, che è nata nel 1978 e che oggi, quindi celebra il suo trentennale. Siamo stati noi a diffonderlo si può dire in tutto il mondo”.
- Come avete cominciato a farlo conoscere, visto che allora era semplicemente vino da taglio?
“Per introdurci direttamente nella storia del vino di Pachino e della cooperativa agricola interprovinciale Elorina, c’è da dire che da principio non esisteva affatto come vino imbottigliato. Esso serviva per tagliare gli altri vini, quelli piemontesi e francesi che non avevano la generosità la pastosità, gli estratti secchi, la bontà, i profumi, i gradi del nostro, che veniva da vigneti coltivati ad alberello ed arrivava a 24/25 gradi zuccherini e partiva tutto, per andare fuori del nostro territorio. L’anno ’80, cioè quando cominciò a lavorare la cantina Elorina, che è stata diciamo un punto di partenza e di arrivo di una metodologia di fare vino locale e di farlo conoscere, finisce il vino da taglio cioè di rinforzo ai vini del Nord Italia e Nord Europa che conferiva migliore qualità a quei vini, per gli estratti secchi che vi aggiungeva soprattutto e li faceva diventare, ad esempio, un ottimo Barolo, un ottimo Barbera. Cominciammo circa 15 anni addietro a imbottigliarlo noi il vino di Pachino, che prima non veniva offerto come vino al consumatore e che finiva a settembre perché tutto se lo portavano fuori con le navi cisterna o con il treno, da Marzameni, a “cunzare” quelli più deboli.
Nel 1980 lì ’Unione Europea introdusse nuove pratiche per aumentare il grado alcolico e la qualità del vino, con la possibilità di fare il mosto concentrato e quindi la funzione del vino da taglio del vino pachinese finisce, perché quelli del Nord non hanno più bisogno di un vino di grossa struttura come il nostro, perché si servono di pratiche ecologiche nuove, come il vino cotto fatto non a temperatura alta bensì bassa, con cui riuscivano ad ottenere lo stesso risultato che prima ottenevano tagliano il loro vino con il nostro”.
- Che se ne fece allora del vino di Pachino?
“Avvenne la crisi, e molti abbandonarono la viticultura, perché i Pachinesi non erano pronti a produrre vino da mettere in commercio per il consumatore. Fu allora che la cantina Elorina si assunse il compito di produrre vino per la distribuzione e riuscì ad associare più di mille soci, per circa 2500 ettari di vigneto per circa 120/130 /140 mila quintali, a seconda l’annata; fu allora che si crearono quelle imponenti strutture, anche in acciaio inossidabile, dove veniva raccolta tutta quella enorme quantità d’uva nel periodo della vendemmia. Però dopo una mezza dozzina d’anni l’Unione Europea diede dei contributi per lo smantellamento delle vigne che si ridussero ad appena il 10% di quelle che c’erano prima, per dare posto alla serricultura e la cultura in tunnel”.
- Quali sono state le conseguenze per l’Elorina?
“Purtroppo ha dovuto ridurre la sua attività. Dal vino da taglio si è passati al vino di qualità; si ammassa molto di meno, fino a soli 10 mila quintali, vengono eliminati i silos, vendendone parecchi a cantine del marsalese, che ancora hanno bisogno di essi. La cantina Elorina oggi è un’Azienda che vinifica molto di meno ma vinifica esclusivamente vini di qualità, con circa 200/250 mila bottiglie di vini alcuni anche invecchiati, con una quindicina di etichette, in particolare sei vini doc; il vino doc per eccellenza che noi pratichiamo è il Moscato di Noto, che è uno dei più famosi vini italiani da dessert, di cui c’è anche la versione secca, al naturale, e il Moscato di Noto liquoroso”.
- Qual è il vostro vino più apprezzato da tavola?
“L’Eloro Pachino, che ricorda la mitica città ancora più antica di Siracusa e che ha avuto la concessione della doc. Eloro, prodotto in particolari contrade più ristrette, come Carsichera, Burgio, Bufaleti. Oggi la Cooperativa Agricola Elorina, formata da produttori agricoli che si dedicano alla produzione del vino con appena 400 ettari di vigneti, che si è ridotta da oltre mille soci ad appena un centinaio. E’ per questa difficoltà che ci rivolgiamo a Libertà affinché generosamente voglia darci una mano perché il vino di Pachino che un tempo era tanto ricercato, riacquisti la notorietà di una volta, perché tende esclusivamente alla qualità, in cui nessuno lo può uguagliare!” Mi rendo conto che il presidente nel dire questo ha nella voce una certa patina di emozione, per cui preferisco non domandargli altro ma assicurargli che Libertà volentieri si presterà a quanto le viene chiesto.