Vinton Cerf, a sinistra, con Robert Kahn. Insieme misero a punto i principali protocolli su cui si basa Internet
NEW YORK—È la prima volta che intervisto un evangelista. E, probabilmente, anche l’ultima. Ma è questa la qualifica di Vinton Cerf, 63enne «padre fondatore» di Internet. Cerf ha cominciato a studiare il modo di far dialogare i computer a Stanford, negli anni ’60. Ha creato, insieme a Bob Kahn, i protocolli che sono alla base del sistema di comunicazione che ha cambiato la vita di tutti noi e, dal ’76 all’82, ha diretto la ricerca della Darpa, l’agenzia tecnologica del Pentagono: nasce in quegli anni la rete di comunicazione militare che è all’origine di Internet. Tornato nell’Università e nel mondo delle imprese, Cerf ha continuato a impegnarsi nello sviluppo del «web». Il primo servizio di posta elettronica messo a punto nel 1986 per conto della società telefonica MCI, porta la sua firma. Gli anni passano, ma lo scienziato americano è sempre attivissimo. Anzi, ora indossa addirittura due cappelli: quello di presidente dell’Icann, l’ente (in realtà una società privata) che gestisce tecnicamente Internet, assegnando agli utenti indirizzi e domini, e quello di vicepresidente di Google dove la sua qualifica è, appunto, «Chief Internet Evangelist».
La chiamano padre, profeta, visionario di Internet. La sua è, effettivamente, una storia straordinaria e in questo mondo della tecnologia popolato da geni ventenni e trentenni, si fa presto a diventare un «grande vecchio». Ma come ci si sente nei panni dell’evangelista? «È un titolo un po’ eccentrico, lo so, ma in fondo rispecchia la realtà » racconta divertito Vint Cerf che, per completare il quadro, esibisce una bella barba bianca. «Quando i due fondatori di Google mi chiesero di andare con loro, io traccheggiai un po’. Ma insistevano e allora, un po' per gioco, un po’ per prendere tempo, dissi: se mi volete mi dovete nominare arciduca. Loro ci pensarono un po’ e poi risposero: arciduca no, l’ultimo è stato ammazzato nel 1914. Meglio evangelista. Evangelista della rete. Ammetto che mi presero in contropiede. Perché, in fondo, è la verità : ho passato tutta la vita a diffondere il vangelo di Internet». Che negli ultimi anni è cresciuta alla velocità della luce, ha cambiato il volto di molte attività — dalla finanza all’informazione, dal trasporto alla difesa—ma che entra nelle nostre vite in modo spesso incontrollabile. E si sta rivelando il veicolo di attività criminali difficili da combattere.
Per John Markoff, il tecnologo del «New York Times», se non si trova rapidamente il modo di «ripulirla», la rete rischia di divenire come quei quartieri che, una volta invasi dalla criminalità , vengono abbandonati dai residenti. «Markoff esagera, ma la metafora è efficace e il problema è serio. Si dice che il dieci per cento dei 600 milioni di computer che vengono accesi ogni giorno, sia infetto. Io credo che quelli vulnerabili siano molti di più: 100-150 milioni. I criminali sono ovunque, nel mondo, e quindi sono anche nella rete. E, siccome Internet cresce rapidamente, anche il "cybercrime" cresce. Un fenomeno non facile da sradicare perché l’attacco può partire da ogni parte del mondo. Ma questi non sono buoni motivi per tirarsi indietro».
Fatte le debite proporzioni, nel creare Internet lei e i suoi colleghi non avete mai avuto crisi di coscienza come quelle dei fisici che, nel secolo scorso, svilupparono l’energia nucleare? «Il nostro era un gruppo di ingegneri e matematici culturalmente omogeneo. Eravamo decisi ad andare avanti, a sfidare l’ignoto, ma effettivamente ci fu un dibattito tra noi, perché ci rendemmo subito conto della vulnerabilità del sistema. Prevalse la fiducia nella capacità della tecnologia di fornirci gli strumenti per turare queste falle. E poi, ad essere sinceri, non immaginavamo che gli attacchi sarebbero stati così massicci e violenti. La verità è che, pur credendo in Internet e nel suo futuro commerciale, non avevamo immaginato un simile, travolgente successo. Ed è proprio questo successo che ha scatenato il crimine informatico». Davanti al quale l’utente si sente disarmato. «I problemi ci sono, l’ho detto, ma i tecnici stanno sviluppando tecnologie di controllo sempre più avanzate. Ormai, quando viene commesso un crimine informatico, si riesce a risalire nel giro di una o due ore al computer dal quale è partito l’attacco. Ora serve un quadro normativo. Bisogna stare attenti a non ingessare il sistema, ma ogni società civile è basata su un corpo di leggi: la comunità di Internet non può fare eccezione».
Quindici mesi fa, alla conferenza di Tunisi, molti Paesi cercarono di sottrarre il controllo di Internet all’Icann, trasferendolo all’Onu. Considerata un modo di portare burocrazia e politica dentro Internet, la proposta fu bocciata. Ma ora avete bisogno della politica. «E i governi sono già al lavoro attraverso l’Internet Government Forum, creato proprio a Tunisi. La gestione della rete resta all’Icann, ma è l’Igf che studia una strategia internazionale anticrimine e che sviluppa nuovi standard comuni. È un lavoro prezioso, di cui si parla poco: pensi solo all’impatto che avrà un riconoscimento generalizzato del valore giuridico della firma elettronica. Certo, ci vuole tempo. Ma l’era di Internet è iniziata da meno di vent’anni. Quale era il quadro legislativo delle telecomunicazioni nel 1896, vent’anni dopo l’introduzione del telefono?».
Internet ha cambiato profondamente il sistema dell’informazione. E anche gli attori stanno cambiando. Tra le società della rete, Google è divenuta rapidamente un gigante che fa apparire vecchia persino Yahoo! Ma qualcuno avverte che Google sta diventando una "media company" che ha i suoi notiziari e, con You Tube, entra nella tv. «Se ne discute anche dentro Google. Eric Schmidt, l’amministratore delegato, parla, ad esempio, di una società che opera in un ambiente mediatico. Ma non rubiamo il mestiere a nessuno: l’obiettivo resta quello di organizzare l’informazione disponibile nelmondo e di renderla accessibile. E non parlo solo di informazione giornalistica. Pensi a quella medica: ricevo continuamente e-mail di gente che mi dice che Internet gli ha salvato la vita».
I media tradizionali sono però spiazzati da una tecnologia - quella cavalcata da Google - che favorisce un individualismo più accentuato, fino alla richiesta di notizie «su misura ». «Capisco cosa intende: gli studiosi del MediaLab del Mit, a Boston, hanno soprannominato il quotidiano del futuro "Daily Me". Io non sarei così perentorio. Internet crea esperienze individuali, è vero, ma spinge chi usa un pc a mettersi in contatto con molte più persone che in passato».
Pensa anche lei, come i leader di alcune Internet company, che il destino dei media tradizionali sia segnato?«Chi pala di morte della stampa sbaglia. Ma i giornali dovranno ripensare il loro modello di business. Se si elimina la parte della distribuzione fisica con i suoi enormi costi fissi, la stampa può continuare a svolgere il suo ruolo: in versione elettronica che, chi vuole, può riprodurre su carta. La funzione editoriale del giornale, la sua capacità di produrre informazione di qualità , non verrà intaccata». Ma su Internet il prestigio della testata, il valore del "brand" ha un impatto minore. «Per via elettronica l’utente ha più modi per accedere all’informazione, è vero. Su Internet c’è più competizione che nel mondo fisico. Dovete prenderne atto»