Il vino di Pachino finalmente doc

Il Consorzio di tutela dei vini doc di Pachino è stato presentato ieri a Roma, nella sede del ministero dei Beni culturali, dal sottosegretario Nicola Bono secondo cui «i prodotti enogastronomici italiani sono veri e propri beni culturali da valorizzare». Da qui la promozione della Sicilia sud orientale anche attraverso i suoi vini, l'Eloro doc e il Moscato di Noto doc, protetti da oggi dal Consorzio e che vengono realizzati con un vitigno, il Nero d'Avola che per anni è servito «solo» per «aggiustare il sapore» di pregiati vini francesi.

Pachino, lembo di terra famosa per i piccoli e saporitissimi pomodori, rilancia dunque sul vino che, insieme ad altri prodotti tipici garantisce lo sviluppo economico e sociale della Sicilia che, ha ricordato Bono, «passa anche attraverso la valorizzazione dei suoi prodotti tipici». Recente è la legge regionale sull'istituzione delle “Strade e delle Rotte del vino” che, ha osservato il sindaco di Pachino, Sebastiano Barone, rappresenta un altro importante momento cui potranno convergere in un proficuo e fattivo progetto di sviluppo i consorzi di tutela, le amministrazioni locali, l'Associazione “Città dei sapori”, l'Associazione “Città del vino”. Ed è un vino carico di storia, quello siciliano presentato ieri a Roma.

Il giornalista e scrittore Salvatore Spoto, nel suo ultimo libro “Sicilia antica” (editore Nerwton & Compton ), ne descrive per esempio l'uso che ne veniva fatto in occasione dei simposi, quando, insieme alle poesie d'amore di Saffo, esule in Sicilia, agli “Idilli” di Teocrito e di altri poeti dell'epoca, serviva a rallegrare i commensali. Veniva, infatti, utilizzato – spiega Spoto che sull'argomento ha svolto approfondite ricerche – per il gioco del kottabos, destinato a diffondersi non solo nel bacino del Mediterraneo ma anche sul Tirreno.

Gli Etruschi ne andavano pazzi e testimonianze di questo gioco si possono trovare anche nei musei. Così il gioco: i partecipanti, dopo avere bevuto, lasciavano poche gocce di vino sul fondo della coppa. Quindi, con l'abilità conseguente alla pratica, le lanciavano su un piatto posto in equilibrio su un'asta bronzea, ornata da pendagli. Questo, se colpito, cadeva a terra tra il tintinnare del metallo. Al vincitore toccava un premio, quasi sempre si trattava di un'ancella presente al simposio.
Fonte: La Gazzetta del Sud On Line il 23-10-2002 - Categoria: Economia

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