Don Oreste Benzi, figura unica
(dalla rubrica "Approfondimenti" del quotidiano cattolico AVVENIRE, 04/11/2007)
ERA BELLO CHE LUI CI FOSSE.
BELLO E ANCHE COMODO
di Davide Rondoni
Ora pensiamo: era bello avere un don Benzi. Lo pensano tutti. Era bello che ci fosse un tizio così. Un grand uomo così. Era bello, era fantastico. Lo pensano quelli che amano la Chiesa, e quelli che non la amano. Quelli che ci stanno dentro da sempre, quelli che l’hanno scoperta più tardi, e quelli che ogni volta che possono ne dicono peste e corna. Al bar, o sui giornali. Per tutti era bello avere un don Benzi. Uno col suo sorriso certo. Un sorriso sereno e tuttaltro che babbeo.
Da romagnolo che sa come stanno le cose. Che non ha paura, e ha dentro una passione che non la frena nessuno. Era bello, era fantastico avere uno così. Che tiene per mano la ex prostituta e la fa accarezzare dal Papa. Uno che ha fatto risuccedere la scena di Maddalena, che l’ha fatta accadere oggi, quella che nel vangelo piace a tutti, poiché tutti ci sentiamo un po’ come lei. Era bello.
Uno che diceva pane al pane. E diceva contro Bush, ma anche contro l’Iraq. E contro la pena di morte, ma anche contro l’aborto. Uno così faceva parte del nostro panorama. Era di tutti, dei credenti e dei meno credenti. E degli idolatri, che credono solo a se stessi o al padrone di turno - la politica, la scienza, le mode… Lui si vedeva lontano un miglio che credeva a Dio. E al suo amore per gli uomini. Ci aveva scommesso sopra la sua intera vita d’uomo e di prete. Era una presenza, una bella figura.
Chissà se i riminesi ora si sentiranno rappresentati più dal suo viso sorridente e spettinato che dal faccione un po’ di cartapesta di Fellini. O se almeno li affiancheranno. Chissà se avranno questo colpo di genio e di cuore. Perché era bello avere don Benzi, sapere che c’era, a Rimini e nel mondo, con le mani e il sorriso dei suoi ragazzi. Con il loro volto che tendeva a somigliare al suo. Ognuno diverso e ognuno un po’ come lui. Tirati su da lui. Come ha detto una ex ragazza di strada al tg: mi ha fatto conoscere Cristo, mi ha fatto ritrovare fiducia in me stessa, e amare la vita. Tre cose semplici e grandiose. Che oggi non saprebbero, non potrebbero dire tanti intellettuali, tanti principi dei salotti televisivi, tanti capi della politica e dell’economia.
Amare la vita.
Per questo era bello sapere di don Benzi. Era fantastico perché uno così, anche se non ci andavi d’accordo, anche se non capivi cosa voleva o dove andava a parare, ti fa amare la vita. La presenza di un tizio così serve proprio a questo, all’ex prostituta, come al grande manager. Al fortunato e al disgraziato. A chi ha molto e a chi ha niente. Era bello, era fantastico il fatto che Dio avesse suscitato uno così nella terra dove la bestemmia è facile come un’invocazione, dove molti non volevano il prete vicino neanche sul letto di morte.
Ma lui lo avrebbero voluti tutti vicino. Anche i politici o quelli che sbuffavano per le sue trovate, le sue idee. Diciamolo: per la sua testimonianza cristiana. Anche loro ora dicono: era bello avere uno così. E io sommessamente aggiungo che era bello, sì, ed era comodo. Perché lui c’era anche quando noi non c’eravamo. Dove la gente non sa più come fare lui c’era, anche quando noi non c’eravamo. Era sulle strade e in quel luogo segreto del cuore dove si sta per disperare a causa di tutto l’orrore che si vede, e però ti veniva in mente lui, e gente come lui.
Era bello, ed era comodo che lui ci fosse. Ora Dio gli ha dato riposo. Gli ha dato il sonno dei giusti. Lo tolga un po’ a noi, ci doni quel sorriso, almeno un poco, e quella simpatia romagnola e santa.
LA SUA STORIA
(Avvenire, 03 novembre 2007)
Un prete innamorato di Dio e degli uomini
di Pino Ciociola
Molto, molto difficile che don Oreste, anche ora, stia rimanendo con le mani in mano: più facile vada mettendosi d’accordo col Padreterno su quel che può fare e, magari, addirittura gli abbia già chiesto se anche lassù è possibile rendersi utile. È facile, ancora, che neppure adesso abbia voluto smettere la vecchia tonaca lisa di "prete da marciapiede" (che non toglie mai). E che il suo sorrisone da nonno buono abbia la luce ancora più bella.
«Decisi da piccolo che nel mio sacerdozio avrei scelto di essere al fianco di chi si sente una nullità», spiegò un paio di anni fa. Perché la sua famiglia era assai povera: il papà faceva l’operaio (ma «non sempre aveva lavoro»), la mamma la casalinga e lui fu il settimo di nove figli.
È nato il 7 settembre 1925 a San Clemente (Forlì) ed è entrato nel seminario di Rimini nel 1937, a dodici anni. Dopo altrettanti ne uscì sacerdote, il 29 giugno del 1949. E il 5 luglio dello stesso anno venne nominato cappellano della parrocchia di San Nicolò a Rimini. Poi nel 1968 la prima casa famiglia dell’"Associazione Papa Giovanni XXIII", fondata insieme ad altri sacerdoti e a diversi volontari. «I momenti peggiori della mia vita – confidò – sono quando vedo una persona disperata: mi sento impotente, piccolo, una nullità di fronte a loro. Allora però cerco di aiutare quella persona e metto tutto nelle mani della Madonna».
Raccontare don Oreste usando il passato prossimo non riesce proprio: neppure sforzandosi, neppure dopo aver riflettuto su come andrebbe descritto. E ancora meno dopo aver letto le sue parole di qualche giorno fa. La morte è una finzione: nulla più di un parametro terreno, non certo del Cielo. Per lui morire è solo un passaggio che troppo di frequente viene interpretato ingannevolmente. Lo ha scritto chiaro e tondo poco tempo fa commentando il Libro di Giobbe proprio per l’ultimo 2 novembre, giorno dei Defunti: «Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra – spiega – la gente che sarà vicina dirà: "È morto". In realtà, è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio».
Solitamente di qualcuno che se n’è andato si sente sempre parlare soltanto bene, a volte per giustizia, altre magari un po’ per dovere, altre ancora per indulgenza. Con don Oreste è diverso. E a chi non lo conosce sarebbe bastato vedere ieri le agenzie di stampa sui computer dei giornalisti per rendersene conto: centinaia di "lanci" che raccontavano del dolore di chiunque, compresi gli uomini politici e da sinistra a destra. La sua vita è semplice e tutta in una sua frase: «Ho cercato sempre di non dire no a Dio». Eppure serve un altro pezzo per capire davvero don Oreste: noi vediamo Dio nei più deboli (su tutti), per lui Dio sono i più deboli. E i suoi giorni non sono parole. Lo sa – bene – chi scende in strada con lui. Sempre, in ogni tempo e luogo delle «trasgressioni» più umilianti per gli esseri umani. Nel cuore di notti gelide, per esempio, quelle con la neve ai lati delle strade e sui marciapiedi le ragazze coperte quasi soltanto di freddo, con le quali parla per ore, alle quali regala rosari e due numeri: quello fisso della comunità e il suo cellulare («se hanno bisogno, devono trovarmi»).
Niente sconti a nessuno, su questo: quelle ragazze trattate come un pezzo di carne ad uso e consumo dei maschi sono schiave, chi le adopera come tali e in qualunque ruolo si metta è a sua volta uno schiavista. «Ma lei non è moderato, don Oreste!», spesso gli rimproverano. Vero. Tanto da far tornare in mente le parole di un altro grande prete morto dieci anni fa, don Luigi Di Liegro, che spiegava come «Cristo non fu un moderato e morì sulla Croce proprio per non esserlo stato»: ecco, per capirci, don Oreste è moderato nel modo di Cristo.
Ha gli occhi chiusi, adesso, ma sorride perché sa che è soltanto «una bugia» e che chiunque può ancora incontrarli: guardate dentro quelli delle donne e degli uomini ai quali ha dato l’Amore. Il suo e quello di Dio.