ARGOMENTO: Vitaliano Brancati e le donne. Leggo qualche vecchio titolo di giornale: "Bell'Antonio a chi?" (Panorama); "Le capriole di Brancati, dongiovanni e moralista" (Il Messaggero); "Un dongiovanni triste" (Gente). Chiedo ad Anna Proclemer:
Quale immagine femminile emerge dalle opere dello scrittore siciliano? E' possibile sintetizzarla?
«No, non è possibile. Nell'incontro di lunedì, al Teatro di Roma, con il pubblico, non sarò io a parlare di Brancati: farò parlare lui, leggendo alcune pagine dei suoi libri. I miei interventi saranno minimi e di semplice raccordo. Proporrò brani sul piacere di discorrere della donna, sulle casalinghe, sulle donne straniere, sulle umili... Non c'è una figura sola. L'elemento unificante è che tutte sono oggetto di desiderio da parte dell'uomo». Anna Proclemer è stata sposata con Vitaliano Brancati sei anni e dal matrimonio è nata una figlia, Antonia. Lo scrittore era nato a Pachino, in provincia di Siracusa, ed è morto nel 1954 a Torino, durante un intervento chirurgico. Aveva 47 anni.
In quale occasione conobbe Brancati?
«Nel 1941, a Roma. Mi ero iscritta alla facoltà di Lettere e Filosofia, e, volendo da molti anni recitare, mi sono precipitata al teatro dell'università, Guf si chiamava allora, dove stavano provando un suo atto unico: Le trombe di Eustachio, una satira dell'Ovra, in pieno fascismo… E difatti ebbe dei guai: andò in scena, ma poi fu proibito».
Quale fu la prima impressione? Che cosa colpì la sua attenzione? «Ero una intellettuale rampante», sorride. «Pur essendo molto giovane, mi affascinava tutto della cultura. Avevo già letto il Don Giovanni in Sicilia, che era uscito nel 1940. Leggevo Eugenio Montale, Thomas Eliot. Mi davo anche un po' di arie. Questo scrittore così famoso, così piccante, mi interessò molto». Pausa. «A me sembrava vecchio, aveva 35 anni. Io ne avevo 16 di meno. Non era questa enorme differenza, ma a quell'epoca un uomo di 35 anni era un uomo maturo. E nell'ambiente universitario, in mezzo a tutti quei ragazzotti camerateschi... Nel primo capitolo di Paolo il caldo, lui racconta questo incontro».
Brancati che atteggiamento ebbe?
«Si innamorò perdutamente. Non me lo disse. Mi scrisse una lettera, poco dopo esserci conosciuti, che forse lunedì leggerò: una delle più belle lettere d'amore, credo, che si possano leggere nella letteratura».
Le chiedeva di sposarlo?
«Me lo chiedeva. Io desideravo fare teatro, finalmente ero arrivata a recitare. Per quanto fossi molto lusingata, gli risposi di no in modo goffo».
Come arrivaste al matrimonio?
«Dopo il mio rifiuto, Brancati tornò a Catania, dove ci siamo incontrati di nuovo nel 1945, finita la guerra: andai lì per fare un film, Malia, con Gino Cervi, Rossano Brazzi, Maria Denis e lo rividi. Ero combattuta: avevo paura di essere distolta dal teatro. A lui, d'altra parte, l'idea di una moglie attrice che va in giro non lo entusiasmava. Dopo un periodo abbastanza acceso, decidemmo di sposarci, nel luglio di un anno dopo».
Quali erano le sue abitudini? Come viveva?
«La giornata era divisa in modo molto regolare. Si alzava abbastanza presto, leggeva i giornali, lavoricchiava. A mezzogiorno si andava a via Veneto dove ci si incontrava con gli amici: De Feo, Pannunzio, Patti, Talarico, il pittore Bartoli. (Sto parlando di quando c'ero anch'io; spesso ero fuori, con suo grande dolore). Il pomeriggio lavorava. La sera, verso le 7, si tornava a via Veneto, da Rosati, alla libreria Rossetti, o si andava a piazza del Popolo. Generalmente si cenava con gli amici».
Che marito era?
«Il nostro era un rapporto molto curioso e, in un certo senso, pericoloso, perché eravamo di una estrema educazione e… non so… diplomazia. Credo che fosse molto geloso, quando mi allontanavo. Ma non me lo disse mai. Cercavo di assentarmi il meno possibile. Ogni tanto mi chiamava il Piccolo di Milano e andavo: io ne ero felicissima; lui era infelicissimo».
Era un amante appassionato, discreto, esigente, timido, tenero, virile…? «Sarebbe stato un amante straordinario. Mi sono sposata vergine: fa un po' ridere, perché avevo 23 anni. Ero poco esperta. E per lui ero una donna un po' angelicata. Mi aveva molto idealizzata. Aveva un rispetto tale che limitava le effusioni: aveva timore di contaminarmi. Sarebbe potuta andare meglio, se non mi avesse considerata, o lo avesse fatto meno, una Madonna su un altare».
Perché il rapporto si esaurì?
«Ah, non lo so. Non cambiò nulla: né in lui né in me. Avevo bisogno di star sola: è una necessità ciclica. Era talmente irrazionale e poco spiegabile che inventai che mi stavo innamorando di un altro, e non era vero. Ne soffrì enormemente. Andai in un piccolo appartamento che era stato di mia nonna: una specie di cantina dalle parti di piazza Quadrata, dove mi sentivo terribilmente felice».
Quando Brancati morì gli era vicina?
«Sì, sì. Andammo a Torino insieme. Noi ci vedevamo, andavamo fuori con gli amici, a cena, lui veniva a casa mia, io andavo a casa sua a vedere nostra figlia che gli avevo lasciato, ma a volte tenevo con me. Non era stata una separazione terrificante, non c'erano interessi di mezzo. E quando andò a Torino, per operarsi, andai con lui. Stemmo lì alcuni giorni perché doveva fare delle analisi. Dormii nella stessa camera, la sera prima dell'operazione. Morì sotto i ferri».
Che cosa le è rimasto, dopo circa mezzo secolo, di quell'amore?
«Ho il rimpianto terribile di non avere vicino una persona di quella statura intellettuale, di quel rigore morale, di quella capacità di giudizio. E' stato una guida importante. Mi ha fatto conoscere tante cose, e poeti, scrittori. Soprattutto mi è rimasta l'attitudine a capire subito quello che è una moda e quello che è un valore. Mi manca enormemente questa pietra di paragone, che lui sarebbe stato, in un mondo dove ogni mattina sbatti la faccia contro fatti orribili che accadono. Pensiamo alla politica italiana: oscena, mostruosa. Vorrei avere qualcuno vicino che mi aiutasse a comprendere, a sopportare, poi forse anche a riderne. Lui ne sarebbe stato forse capace; io no».
Fonte:
Il Messagero il 23-01-2003 - Categoria:
Cultura e spettacolo