PACHINO - Che Pachino fosse nota per la produzione dell'ortofrutta, è ormai cosa risaputa. Ovunque, nelle cucine dei migliori ristoranti italiani e stranieri, regna incontrastato il famoso ciliegino, e cioè quello che è stato rinominato come l'oro rosso di Pachino proprio per sottolinearne la funzione divenuta portante nell'economia locale. Ma c'è un altro rosso dominante in seno all'agricoltura ed all'economia cittadina, è il rosso del vino. Il Vinitaly svoltosi qualche giorno fa a Verona è stato solo una conferma dell'interesse di moltissimi produttori italiani che guardano sempre con crescente attenzione alle nostre campagne. L'economia legata al vino dunque sembra essere destinata ad un nuovo boom dopo la flessione degli anni scorsi che ha visto un nettissimo calo nella produzione e una radicale sostituzione dei tralci delle viti con la plastica delle serre che hanno via via ricoperto il territorio. Oggi l'inversione di tendenza sembra essere vicina, almeno stando agli investimenti che grossi produttori nazionali stanno compiendo sul nostro territorio. Dal Nord Italia infatti in molti hanno compreso le potenzialità da qualche decennio dimenticate delle terre a propensione vitivinicola, ed hanno comprato vaste estensioni di terra, forse fiutando i vantaggiosi affari. I nomi degli investitori più importanti che circolano negli ambienti dell'agricoltura pachinese sono quelli di Filippo Mazzei, che dopo aver investito nel senese ha comprato ben 30 ettari di terra tra Noto e Pachino, Antonio Moretti, della ditta Sette Ponti di Arezzo che nella zona di contrada Maccari ha investito su 120 ettari di terra da destinare alla produzione del Nero d'Avola, ancora i Marzotto che hanno rilevato una tenuta di più di 110 ettari, ed ancora i Planeta, che oltre al Nero d'Avola vogliono avviare la produzione di Moscato di Noto, i Benanti ed altri nomi noti che hanno legato il loro nome alla produzione nazionale del buon vino.
A costoro si aggiungono poi i produttori locali, che sono stati premiati per avere creduto nella ripresa del vino nelle nostre terre. Ditte come Arfò, Rudinì, Baroni di San Lorenzo, ed altri hanno già ricevuto diversi riconoscimenti importanti nelle manifestazioni enologiche anche internazionali. Del resto la politica locale sembra orientata a favorire la valorizzazione di quest'altro oro rosso. Il comune di Pachino infatti ha aderito in qualità di socio all'Associazione Città del Vino già nel 1998, e quest'anno sta partecipando alla terza rassegna internazionale "La selezione del Sindaco" che ha lo scopo di promuovere e pubblicizzare i prodotti di qualità. Per questo motivo le aziende locali produttrici di vino sono state invitate ad aderire a tale concorso. Unico cruccio da parte di alcuni produttori, il fatto di non avere un riconoscimento esclusivo per Pachino. Il Nero d'Avola è infatti la denominazione del vitigno ma non contraddistingue la zona di produzione.
Salvatore Marziano
Fonte:
LaSicilia.it il 18-04-2004 - Categoria:
Economia
Dal Sito Bio-agricoltura:
MACCHE' NOE', IL VINO LO INVENTO' UNA DONNA
Mentre gli uomini andavano a caccia, le donne cercavano dolci bacche: e inventarono il vino. Lo sostiene Patrick McGovern nel suo libro «Origins and ancient history of wine».
Il vino l'hanno inventato le donne, sostiene nel suo libro «Origins and ancient history of wine» Patrick McGovern, archeologo molecolare all'Università della Pennsylvania.
Il campo dello studioso è interdisciplinare per definizione e infatti McGovern si è servito della collaborazione di genetisti che lo hanno aiutato a scoprire come la vite fu domesticata; di fisici i quali, mediante l'attivazione neutronica, hanno determinato il luogo di estrazione dell'argilla delle giare; di chimici che, grazie ad avanzate tecniche di fluorescenza hanno identificato le tenui tracce organiche in esse ancora presenti.
Quanto è vecchio il vino?
«Almeno settemila anni - scrive McGovern - ma forse di più. Andiamo indietro nel tempo e immaginiamo un gruppo di antenati, di certo donne che, mentre gli uomini sono a caccia, vanno alla ricerca di qualcosa di dolce per i piccoli e i vecchi. Sarebbe possibile immaginare uomini con la clava che raccolgono fragoline? No, si trattava di donne. Qualcuna di loro un giorno scopre un tralcio da cui pendono grappoli dolci e ne riempie la sacca di pelle di capra che ha con sé. Forse al fondo resta un succo leggermente inebriante. Grazie al clima caldo si è già prodotto un alcol, magari di bassa gradazione».
Nel Neolitico, dodicimila anni fa, quegli acini erano quasi certamente ancora frutti selvatici della Vitis vinifera sylvestris e difficilmente quelle donne potevano avere contenitori davvero adatti.
«Solo più tardi, 7-8 mila anni fa, nasce l'organizzazione necessaria a vinificare, vale a dire l'agricoltura. Siamo in Medio Oriente e, con l'agricoltura, sta sorgendo anche una sorta di cucina con le prime tecniche: fermentazione, cottura, uso di erbe e spezie. Il grano era già coltivato e qualcuno aveva già inventato il pane. Altri avevano trovato il modo di cuocere le prime giare. Solo a quel punto i nostri progenitori furono davvero in grado di spremere, conservare e trasportare il vino.»
La scoperta di McGovern è vecchia, ma la sua interpretazione è recentissima. 1968: siamo in Iran, sulle pendici settentrionali dei monti Zagros, nel villaggio di Hajjj Firuz.
Sembra uno dei tanti scavi finanziati dal prestigioso Museo Archeologico dell'Università della Pennsylvania.
E invece da una casa vengono fuori due giare speciali. Sono a pezzi, ma il gruppo di Mc Govern intravede all'interno dei cocci tracce rossicce con un bordo giallo.
Ci sono anche righe colorate. L'intera squadra torna negli Usa e qui iniziano le analisi. All'inizio ci si limita a datare quella ricca casa, fra i 5000 e i 5400 anni avanti Cristo.
Ma quando si tratta di analizzarne i colori non ci sono i mezzi, le apparecchiature sono ancora da inventare. La risposta definitiva giunge grazie a nuove tecniche, molti anni dopo, ed è inequivocabile. Dice McGovern: «La giara mostra segni di acido tartarico e di altri composti organici tra cui un additivo conservante tratto dall'arbusto del terebinto di cui si serviranno anche i romani. Dunque, in Iran nel 1968 noi scoprimmo il vino più antico del mondo, anche se ci abbiamo messo più di trent'anni per capirlo.»
McGovern compone poi una vera mappa della vinificazione antica, riesce a rintracciare l'origine dell'argilla di molte giare, nonché di quella dei tappi.
Si parla di valle del Giordano e del Mar Morto, ma anche di terra del Nilo. Segno di viaggi, commerci e spostamenti e segno che, proprio come i migliori viticoltori moderni, anche quelli, ad un certo punto, cambiavano i tappi.
Ma erano tappi d'argilla.