Nel Buio di Calafarina

Un vecchio di Rosolini, fidando in un'antica leggenda che parlava di tesori nascosti, si recò, da solo, lungo la costa che da Portopalo va sino a Marzamemi. Nei pressi di un antico "cugno", un tempo invaso dalle acque del mare, dove le imbarcazioni approdavano per il carico di granaglie, ed ora ricolmo di una finissima sabbia dorata; si fermò a guardarsi intorno con circospezione; risalì verso l'interno per alcune decine di metri e si introdusse, furtivo, nel buio di una grande buca che lì si apriva d'improvviso, come una voragine, nel suolo pietroso.

Armato di piccone e di vanga cominciò a scavare nell’affannosa ricerca del misterioso tesoro. Cercava di individuare, tra la terra che andava smuovendo, se mai vi fosse traccia di qualche vecchio forziere arrugginito, magari non molto grande, ma certamente ripieno di monete d'oro e chissà cos'altro. Ma, dai fossi scavati, venivano fuori solamente "ciammarite" e brutte quartare, tutte frantumate miste a tante ossa. Il vecchio scavò più in fondo alla grotta, oltre un grande pilastro che, numerose stalattiti unitesi alle stalagmiti, avevano formato a sostegno della volta calcarea che ricopriva tutto come un solido guscio protettivo. Cercò dappertutto, anche molto più in fondo, mise a soqquadro tutto il terreno passibile di scavo, ma non trovò nulla. Nulla. Nemmeno un pezzo dello sperato forziere, e, di monete, poi, nemmeno un luccichio.

Si era fatta notte inoltrata quando dal fondo della grotta, rischiarata dal chiarore di una sciabolata di luna piena, il vecchio decise di uscire ed andare via, tornare a casa, abbandonando il piccone e la vanga. Stanco per la fatica, con gli abiti sporchi di polvere bianca, e per via dell'ora ormai tarda, si pose a sedere su un muretto a secco al lato della strada; poi vi si trovò sdraiato con la faccia rivolta alla luna che lo guardava beffarda e ripensò con sconsolatezza a tutti quei maledetti, vecchi cocci dipinti che venivano fuori dallo scavo, con tutti quei segni strani, come per raggirarlo, per fargli credere che se avesse scavato ancora un po', ci sarebbe riuscito; e lui aveva scavato per ore, ma non erano venute fuori che altre ciotole e pentolacce, ed aveva proseguito con tutta la rabbia di cui era capace, ma non aveva trovato nulla. Ed ora, era solo stanco: aveva voglia di dormire. Non capì, né seppe mai, che in quella sua frenetica giornata aveva distrutto uno dei più inestimabili tesori della cultura siciliana: il deposito preistorico della grotta di Calafarina, presso Pachino.

Quando il grande Paolo Orsi, primo fra gli archeologi, ebbe modo di interessarsi alla ricerca archeologica della zona e prese in esame la possibilità di un utilizzo della grotta in età preistorica, trovò solo un gran disastro. Nonostante ciò, dalla sommatoria di tutti i tipi ceramici, sparsi in ogni dove, dedusse chiaramente che si trattava di un’importante stazione preistorica con attestazione della vita già dal Terzo millennio a.C. L'archeologo ebbe modo di identificarvi, come più antica, una ceramica d’impasto grossolano, formata con l'uso delle sole mani e decorata con fasce lucide e sottili incisioni orizzontali, impresse con una stecca, affiancati da piccoli ìncavi tondi; tali segni erano fatti risaltare riempiendo i solchi con ocra rossa o impasto biancastro che contrastavano sul fondo grigio-nerastro del materiale. Si tratta della tipica "cultura" eneolitica che prende il nome dalle località dove meglio è stata isolata e studiata a fondo: quella di San Cono - Piano Notaro.

Fu raccolto tutto il materiale reperibile e ci si accorse che in fondo alla grotta vi era qualche sepoltura rimasta ancora integra. Fu scavata con cura.

Tra il 1944 ed il '45, l’archeologo Luigi Bernabò Brea, da pochi anni soprintendente di Siracusa, nell'ambito della ricerca nel territorio di Pachino, visitò la grotta di Calafarina ed accorgendosi che esisteva ancora un lembo non scavato da Paolo Orsi, ne fece oggetto di studio, ma i risultati cui pervenne (riportati in un manoscritto, in seguito pubblicato da Bruno Ragonese) furono i medesimi di prima: non uno strato archeologico era rimasto intatto ed in quelli più profondi si trovava materiale greco e addirittura bizantino.

Ci si limitò a schedare il materiale rinvenuto che attestò la frequentazione della grotta sino a tutta l'Età del Bronzo.

Fu accertato che la particolare struttura geo-morfologica permise l’adattamento ad abitazione solo quando crollò, per cause sconosciute, una parte della volta, mettendo in luce un vasto ambiente a sandwich, con la parte superiore sorretta da un intricato sistema di stalattiti e stalagmiti che, nei secoli, avevano finito per formare dei veri e propri pilastri che, nella zona più profonda, avevano costituito una barriera impenetrabile, lasciando abitabile solo un vasto camerone, a tratti, alto poco più di due metri ed una più vasta area dalle altezze ridotte che digrada lateralmente con presenza di sostegni naturali che creano degli spazi difficilmente accessibili.

Visitare la grotta di Calafarina non è difficile (il toponimo completo è "Cugni di Calafarina"). Uscendo da Pachino, direzione Portopalo, occorre imboccare la strada che affianca la zona del cimitero e percorrerla sino al mare. Calafarina si trova in prossimità del mare lungo una stradella che si diparte dalla litoranea oltre un ampio ponte. La scritta ed una freccia su un cartello giallo segnalano la presenza del sito archeologico.

La visita va integrata con una delle salette del museo Paolo Orsi di Siracusa dove si trovano i reperti di Calafarina ed un rilievo planimetrico della grotta.

di Gaspare Mannoia

PachinoGlobale.com ringrazia il sig. Gaspare Mannoia per il prezioso contributo.
Fonte: Gaspare Mannoia il 28-01-2004 - Categoria: Cultura e spettacolo

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