di Roberto Bruno
Oggi cade il compleanno di Pachino, ed è una ricorrenza particolare, essendo il 250° della sua fondazione. Il 21 luglio 1760 Ferdinando di Borbone, III re di Sicilia e IV di Napoli (Ferdinando I delle Due Sicilie, dopo il Congresso di Vienna) concedeva a Gaetano Starrabba, principe di Giardinelli, il Regio Diploma con cui si autorizzava la fondazione della città sul feudo Scibini, nell'estremo lembo della Sicilia orientale. Sono passati duecentocinquanta anni da quel 21 luglio, e sono stati scanditi dalla vita activa di una comunità che si trova, oggi, l'opportunità di vivere questo territorio, di introiettare nel proprio quotidiano le straordinarie peculiarità ambientali che lo caratterizzano. Duecentocinquanta anni in cui il territorio è stato plasmato dall'intensa attività del lavoro umano, traendo da esso risorse e materia viva per la fabbrica della città. Duecentocinquanta anni in cui è stato profondamente abitato.
A partire dai primi coloni provenienti da Malta, testimonianza di come il Mediterraneo abbia da sempre rappresentato un luogo di incontri di popoli, di scambio di merci e di confronto fra culture. I primi abitatori della città arrivarono infatti proprio da Malta, attirati dalle favorevoli condizioni concesse dal Re a Gaetano Starrabba, bisnonno di Antonio, marchese di Rudinì, che assurgerà al rango di Primo Ministro del Regno d'Italia a fine '800, e che durante la sua lunga vita manterrà con Pachino solidi legami, fatti di lunghi soggiorni e vasti interessi economici. Come ricordare questi duecentocinquanta anni, se non con la lettura degli elementi della longue durée di Braudel, e cioè con le persistenze e le continuità storiche che nel corso del tempo hanno scandito le opportunità di vita degli uomini che hanno abitato questa estrema propaggine della Sicilia?
A partire dal rapporto fra la natura, l'ambiente e l'uomo, dove la natura non è soltanto fornitrice di risorse come l'aria, l'acqua, e ancora la terra e i suoi prodotti, i pesci, l'avifauna, i blocchi di pietra e il legname per costruire. Ma è soprattutto natura cooperante della vita e delle attività tipicamente umane. È quindi interscambio, secondo un rapporto fecondo e rispettoso degli equilibri naturali disseminati nel tempo che hanno consentito alle comunità di insediarsi sul territorio, di plasmarlo secondo le proprie esigenze, e alla natura di poter assorbire gli interventi dell'uomo, di introiettarli nei propri cicli, di farli in qualche modo propri.
Su questi rapporti gli uomini hanno allacciato con la natura, attraverso l'uso del territorio e delle risorse, un legame intrinseco fatto di stretta peculiarità (nei toponimi, nell'uso della lingua, nella foggia delle case, delle stesse conformazioni dei terreni, con l'uso dei canali, delle trazzere, lo scavo di pozzi, la fabbrica di muri, l'impianto di colture, ecc.) e di sostentamento, rinvenendo nelle tipicità del territorio di Pachino, le opportunità di vita. Scriveva Giovanni Botero, alla fine del '500, come nel far grande una città concorresse in massima parte l'opportunità per le popolazioni di ricavarne un qualche emolumento: «or gli uomini si riducono insieme mossi o dall'autorità, o dalla forza, o dal piacere, o dall'utilità che ne procede».
Le comunità che nel corso del tempo hanno abitato il territorio di Pachino hanno trovato sempre un qualche emolumento, al punto da fondarvi una città, richiamando altri uomini per lavorare i campi, per pascolare le greggi, per cogliere appieno quegli emolumenti che la natura cooperante ha sempre offerto loro. E ancora, a fine '800, annotava il marchese Antonio Starrabba di Rudinì del grande impegno di lavoro umano (e di capitali) per migliorare le terre dell'agro pachinese: «da trent'anni lavoro con perseveranza a frazionare, mutandone le colture, alcuni fondi che posseggo nella zona littoranea della provincia di Siracusa (…) Il buon volere, l'interesse e la tenacia dei proprietari, associati al buon volere, all'interesse, e alla tecnica dei contadini, operarono un vero miracolo».
Questo passo - che il marchese scrive per sostenere a suo dire l'ineluttabilità del latifondo - ci mostra piuttosto come ancora a fine '800 il rapporto fra la natura e le attività dell'uomo si potessero coniugare con l'esigenza di una idea di progresso rispettosa dei cicli ambientali e delle esigenze umane: la bonifica di ampie aree paludose libera molte terre, che sono messe a coltura e forniscono occasioni di lavoro e sostentamento per numerose famiglie, trasformando il paesaggio agrario con l'introduzione della vite e contribuendo a rendere più omogeneo il rapporto fra la comunità e il territorio.
È questa la chiave di lettura che si presenta con lampante semplicità e drammaticità a noi abitatori nella veste di abitanti, fruitori, lavoratori, imprenditori, cittadini: un territorio e una città che vanno vissuti e salvaguardati in tutte le proprie estrinseche caratteristiche. La memoria della storia è, ancora una volta, un consiglio (che proviene dal passato) e al tempo stesso un monito (in direzione del futuro) sulle molteplici possibilità che ha l'uomo in rapporto al territorio e all'ambiente in cui e con cui vive.