Pietro Ferrara: «Antropologia della mente umana»

Pietro Ferrara: «Antropologia della mente umana» «I fattori socio-culturali svolgono un ruolo importante per le discipline della salute mentale - spiega il dottore Ferrara all'inizio della sua conferenza -. Proprio per la variabilità di questi fattori sono stati studiati i tratti costitutivi delle varie culture e della varie etnie. Quando ci si trova di fronte a due popoli diversi entrano in gioco vari fattori e varie discipline di studio. Tra le tante discipline è importante conoscere le relazioni che esistono tra le caratterizzazioni mentali, morali e intellettuali dei diversi popoli. Per comprendere quindi alcuni "fenomeni" come il misticismo e il fanatismo è necessario applicare la psicologia alla religione». Il dottore Ferrara spiega come sia necessario applicare la psicologia, e quindi la medicina, per lo studio e la comprensione dei comportamenti umani. Il dottore Ferrara non dimentica che la società attuale è multietnica e che quindi è necessario conoscere le abitudini dei popoli che vivono con noi a 360 gradi. «La malattia mentale - conclude Ferrara - si manifesta quindi sotto forme diverse e, quando un individuo viene colpito da questa patologia può reagire in modi diversi. Sicuramente le malattie mentali colpiscono prima di tutta la libertà del singolo individuo».

s. s.
Fonte: LaSicilia.it il 17-01-2007 - Categoria: Cronaca

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Un patto globale per la salute.
Il ruolo dell’Italia nella cooperazione sanitaria internazionale

Lettera aperta a:
• Massimo D’Alema, Ministro degli Esteri
• Patrizia Sentinelli, Vice-ministro degli Esteri
E per conoscenza a:
• Romano Prodi, Presidente del Consiglio dei Ministri
• Livia Turco, Ministro della Salute
• Enrico Rossi, Coordinatore degli Assessori Regionali alla Sanità

Perché scriviamo questa lettera.
Facciamo parte dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, un’associazione che si occupa di salute e di sanità su scala globale. Come molti altri in Italia e nel mondo denunciamo un crimine contro l’umanità: la morte, ogni anno, di milioni di persone - tra le quali oltre 10 milioni di bambini e 500.000 donne durante la gravidanza ed il parto - a causa di malattie facilmente prevenibili e curabili, se solo si potesse garantire accesso universale a servizi sanitari essenziali, cibo, acqua ed istruzione. La maggioranza di questi decessi, la punta di un enorme iceberg di malattia e sofferenza, si registra in una sessantina di paesi, soprattutto nell’Africa sub-Sahariana.

Le cause prime di queste morti sono ben conosciute:
• Politiche commerciali ed economiche globali guidate dalla logica del profitto.
• Gli interessi strategici dei paesi più forti e ricchi.
• Guerre e conflitti che assorbono enormi quantità di risorse, seminando distruzione e odio.
• Povertà e miseria.
Tutte legate in un circolo vizioso senza uscita. La scia di sbarchi di immigrati è il simbolo di questa condizione: l’umanità che fugge dalle guerre, dalla povertà e dalla malattia, la povertà provocata dalla guerra, la guerra generata dalla povertà, morte e malattia frutto di entrambe, ed a loro volta fattori di povertà e conflitto.

Basterebbero 160 miliardi di dollari l’anno, corrispondenti grosso modo allo 0.7% del PIL dei paesi industrializzati, per evitare molte di queste morti e sofferenze. I paesi dell’OCSE si sono da tempo impegnati a raggiungere questo obiettivo; con qualche eccezione, non l’hanno fatto. La media attuale si attesta poco oltre lo 0.4% del PIL. Non solo: molti di questi soldi rientrano con vari meccanismi nei paesi ricchi, altri sono virtuali (cancellazione del debito), altri sono dirottati per fini diversi dallo sviluppo, o spesi male. Tutto ciò si perpetua tra l’indifferenza della comunità internazionale e, spesso, l’inerzia dei governi locali.

In questo documento non vogliamo aprire una discussione su come affrontare guerre, politiche commerciali inique e povertà; abbiamo delle opinioni in merito, ma si tratta di problemi da trattare in altre sedi. Ci preme solamente far notare che devono essere urgentemente affrontati in maniera coerente con le politiche di aiuto allo sviluppo. Se così non fosse, renderebbero automaticamente inefficaci queste ultime.

Vogliamo invece esaminare brevemente, per poi fare delle proposte, la destinazione dei fondi del cosiddetto aiuto allo sviluppo. L’OCSE riporta per l’Italia un totale di quasi 2.5 miliardi di dollari nel 2004. I dati preliminari per il 2005 arrivano a quasi 5 miliardi di dollari, anche se non riusciamo a capire come si sia arrivati al raddoppio in un anno (e chiediamo perciò al governo una spiegazione). Non conosciamo ancora le stime per il 2006. Una parte di questi soldi è assegnata al Ministero degli Esteri per la cosiddetta cooperazione allo sviluppo. La finanziaria per il 2005 assegnava a questo scopo circa 600 milioni di euro, quella per il 2006 circa 400; l’esborso effettivo è stato sicuramente inferiore a queste cifre. Alle quali si deve aggiungere una somma, attualmente non quantificabile, spesa soprattutto dalle Regioni per la cosiddetta cooperazione decentrata.

Far tesoro delle lezioni e delle esperienze del passato e del presente.
I fondi che il nostro paese destina all’aiuto allo sviluppo sono scarsi. Siamo ben sotto lo 0.7% del PIL cui ci siamo impegnati, siamo sotto le medie dell’OCSE e dell’UE, spendiamo circa un terzo di quanto spendono Francia, Germania e Gran Bretagna. Anche i fondi disponibili per la cooperazione allo sviluppo, citati sopra, sono scarsi. Negli ultimi anni tendono a diminuire, in controtendenza rispetto a quanto accade negli altri paesi europei. Inoltre, è venuta a mancare una programmazione ed una regia, una strategia ed una supervisione di qualità.

Questa mancanza di regia ha portato la cooperazione italiana ad accodarsi passivamente all’approccio proposto dalla Banca Mondiale e adottato poi dal G8, basato su interventi “verticali”, mirati al controllo di singole malattie o gruppi di malattie. Tale approccio è alternativo ad interventi tesi a:
• rafforzare i sistemi sanitari nel loro complesso
• promuoverne l’equità e l’accessibilità
• enfatizzare il ruolo delle cure primarie
• favorire la multisettorialità (istruzione, nutrizione, acqua e servizi igienici, casa, lavoro, etc.)
• stimolare la partecipazione della popolazione
In sintesi, interventi coerenti con i principi enunciati dalla Dichiarazione di Alma Ata del 1978.

Il fallimento dell’approccio verticale è sotto gli occhi di tutti: i fondamentali indicatori di salute dei paesi più poveri (speranza di vita alla nascita, mortalità infantile e materna) sono rimasti stazionari o sono addirittura peggiorati. Esperti di tutto il mondo considerano ormai irraggiungibili, per i paesi più poveri, i cosiddetti Obiettivi del Millennio, tra i quali rientrano la riduzione della mortalità materna ed infantile. I motivi del fallimento sono chiari:
• Non si è agito sui determinanti distali delle malattie: il reddito, l’istruzione, l’abitazione, l’ambiente, le infrastrutture, etc. Anzi, le disuguaglianze tra paesi e nei paesi sono cresciute, anche a causa delle inique politiche del commercio mondiale.
• I programmi verticali - la cui gestione è affidata a fondi ed agenzie internazionali - rafforzano artificiosamente e temporaneamente linee di erogazione dei servizi sanitari dedicate a malattie o interventi specifici (Aids, malaria, tubercolosi, etc.), creano assurde e nocive forme di competizione tra servizi (gli operatori locali tendono a collocarsi presso le agenzie economicamente più generose) e rendendo ancora più precario e inefficiente il funzionamento del sistema sanitario locale.
• La “verticalizzazione” si è accompagnata a radicali politiche di privatizzazione dei servizi sanitari: ovunque prestazioni a pagamento, con la conseguenza di rendere difficilmente accessibili i servizi e di esporre le popolazioni alla “trappola medica della povertà” (l’impoverimento critico delle famiglie provocato dalle spese mediche).

Ma non è solo questione di approccio; negli interventi prevalgono spesso autoreferenzialità, frammentazione e scelte discutibili di priorità. Ad esempio, sia la cooperazione allo sviluppo che importanti settori del non-profit hanno impegnato ed impegnano ingenti risorse per servizi ospedalieri ad alta specializzazione (cardiochirurgia, oncologia, nefrologia, etc.). Anche se concepiti per andare incontro a bisogni reali della popolazione, tali interventi sono molto discutibili per i seguenti motivi:
• In paesi con estrema scarsità di risorse destinate alla sanità (10-15$ pro-capite l’anno di spesa sanitaria) e con operatori sanitari che, quando non fuggono dai loro paesi, tendono a concentrarsi nelle città, è necessario oltre che etico stabilire delle priorità, dando la precedenza ai problemi che causano il maggior carico di malattia e morte e agli interventi con il rapporto costo-efficacia più favorevole. Un anno di vita salvato con interventi di cardiochirurgia costa oltre 10.000$, un anno di vita salvato con interventi di prevenzione della malaria in gravidanza costa dai 3 ai 12$.
• I servizi di cure terziarie nei paesi poveri tendono inevitabilmente ad essere usati dalle fasce urbane e più ricche della popolazione, che hanno facilità e mezzi per accedere a diagnosi iniziale, follow-up, proseguimento e controllo delle terapie per la corretta gestione delle patologie eleggibili per cure specialistiche. I più poveri difficilmente traggono benefici da cure terziarie anche se offerte gratuitamente, laddove persistono altre barriere.
• L’apparato logistico e di personale necessario a sostenere tali interventi finisce necessariamente col drenare risorse umane locali essenziali dal resto del sistema, quindi dalla sanità pubblica e dalla sanità di base, con un danno grave per le sue possibilità di sviluppo.
• La sostenibilità nel tempo di interventi di questo tipo è poco verosimile per la disponibilità dei donatori in genere limitata al breve periodo, la mancanza di coinvolgimento della popolazione locale, la scarsa o nulla rispondenza del programma ai bisogni percepiti dalla comunità e alle politiche del governo ospite. L’ignaro “beneficiario”, con il passare degli anni, vede così il tanto acclamato ospedale supertecnologico trasformarsi in un peso economico insopportabile che assorbe risorse indispensabili dai servizi primari.

Nuove politiche di cooperazione per affermare il diritto alla salute.
L’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale ritiene che il nostro Paese possa e debba cambiare strada e svolgere un ruolo nuovo e importante nel campo della cooperazione allo sviluppo e di quella sanitaria in particolare, riportando al centro dell’agenda politica italiana, europea ed internazionale il diritto alla salute. Occorre ridefinire un piano strategico ed affidarne l’esecuzione a tecnici e consulenti di provata esperienza e competenza nella realizzazione di programmi sanitari di base integrati in un approccio multisettoriale. Occorre rivedere le posizioni assunte in seno alle organizzazioni internazionali, battendosi per un approccio coerente con una visione chiara di cause e rimedi.

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egli ultimi anni i maggiori esperti internazionali di politica sanitaria hanno elaborato proposte per dare risposta alle drammatiche condizioni di salute delle popolazioni più povere del pianeta. Sono state valutate criticamente, anche da parte dei loro stessi fautori, le politiche adottate di riduzione dei bilanci pubblici per istruzione e salute, causa di una restrizione dell’accesso a scapito dei più poveri. É stato calcolato che l’accesso universale a un pacchetto di servizi sanitari essenziali, preventivi e curativi, potrebbe evitare la morte di 8 milioni di persone all’anno, in maggioranza donne e bambini. Il raggiungimento di questo obiettivo comporterebbe un impegno finanziario da parte dei paesi più ricchi di poco meno di 40 miliardi di dollari l’anno, una cifra 6-7 volte maggiore rispetto all’attuale livello degli aiuti, ma nell’ambito degli impegni assunti dalla comunità internazionale.

Il primo impegno che chiediamo al governo è quindi:
1. Un aumento, già nella prossima Legge Finanziaria, dei fondi per la cooperazione allo sviluppo. Sarebbe già sufficiente, ad indicare l’inversione di tendenza, ritornare alla cifra stanziata per il 2005, circa 600 milioni di euro, assicurando che non saranno dirottati per altri scopi e che saranno gradualmente aumentati negli anni a venire.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nei suoi ultimi rapporti annuali, ha proposto le seguenti linee strategiche per garantire il diritto alla salute, migliorare la speranza di vita e ridurre mortalità materna ed infantile nei paesi più poveri:
• Garantire l’universalità di accesso alle prestazioni, dando priorità assoluta alle fasce più vulnerabili della popolazione, i bambini e le donne.
• Rafforzare i sistemi sanitari nel loro complesso, in alternativa alle strategie basate sui programmi verticali.
• Potenziare infrastrutture, sistemi di programmazione e controllo, di acquisto e distribuzione di farmaci essenziali (inclusi i farmaci antiretrovirali per il trattamento dell’Aids).
• Investire, soprattutto, in risorse umane all’interno del settore pubblico: formare, motivare, remunerare degnamente il personale sanitario, anche per bloccare il suo esodo verso il settore privato o verso l’estero.
Dal punto di vista organizzativo il modello di sistema sanitario da prediligere è quello basato sul Distretto Sanitario, composto da: a) una rete capillare di servizi periferici, variamente dimensionata, grado di dare risposte ai bisogni primari della popolazione; b) un ospedale distrettuale di riferimento per l’erogazione di cure più complesse (medicina, chirurgia, pediatria, ostetricia e ginecologia).

Tali interventi a sostegno dei sistemi sanitari di base vanno accompagnati da politiche economiche e sociali in grado di ridurre i fattori di rischio (come la malnutrizione o l’assenza di acqua e sistemi igienici) e promuovere la domanda di salute (attraverso l’informazione e l’istruzione, nonché la gratuità delle cure essenziali al momento dell’erogazione). In base a queste premesse, gli altri impegni che chiediamo al governo sono:
2. L’elaborazione di un documento di programmazione strategica che indirizzi gli attori della cooperazione, pubblici e privati, ad un uso coerente dei fondi messi a disposizione. Devono essere definite delle priorità all’interno della cooperazione sanitaria e nell’ambito di interventi multisettoriali che agiscano anche sugli altri determinanti sociali della salute. Devono ovviamente essere definite delle priorità anche in ambito geografico, privilegiando alcuni dei paesi più poveri.
3. La revisione dei meccanismi di pianificazione e gestione tecnica dei fondi della cooperazione allo sviluppo, sul modello delle linee già da tempo adottate dalle agenzia bilaterali dei paesi nordici ed usando al meglio le competenze e le esperienze disponibili.
4. La destinazione dei fondi pubblici per la cooperazione allo sviluppo non a progetti di facile presa da un punto di vista mediatico, ma a:
a. Programmi che prevedano il rafforzamento dei sistemi sanitari nel loro complesso e nell’ambito di interventi multisettoriali.
b. Programmi rivolti al rafforzamento delle risorse umane in campo sanitario (formazione, aggiornamento, supervisione, ma anche salari degni e soddisfazione professionale).
c. Programmi che, pur rivolgendosi ad una popolazione o condizione specifica (l’Aids per esempio), siano integrati nell’ambito di un rafforzamento del sistema sanitario e non parcellizzati (vedi i numerosi casi di progetti divergenti perché gestiti da singoli donatori), con responsabilizzazione del governo locale (o di altri rappresentanti legittimi della popolazione locale).
d. Programmi miranti a ridurre disuguaglianze ed iniquità, con priorità per aree e popolazioni meno privilegiate e con adeguati meccanismi di monitoraggio dell’andamento delle disuguaglianze.
e. Programmi che prevedano investimenti integrati in altri settori che determinano lo stato di salute di una popolazione (istruzione, nutrizione, abitazione, acqua, etc.).
5. La destinazione di una parte dei fondi per emergenze, intese come disastri naturali o causati dall’uomo, evitando in tal modo di penalizzare i programmi di cui al punto precedente. Le spese per interventi di emergenza che superino la quota prefissata non dovrebbero essere fatte attingendo dai fondi messi a disposizione per programmi di sviluppo.
6. La revisione della destinazione d’uso dei fondi elargiti ad alleanze ed organismi internazionali, in primo luogo l’OMS, perché sia coerente con l’approccio strategico definito per la cooperazione italiana, a difesa del diritto alla salute e dell’accesso universale a servizi sanitari di base.

L’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale si dichiara disponibile per approfondimenti e valutazioni più specifiche, nonché a partecipare alla formulazione del programma strategico e di indirizzi per la pianificazione e la gestione degli interventi di cooperazione sanitaria.