Premio di Giornalismo "Più a sud di Tunisi": Gli articoli premiati

Premio di Giornalismo "Più a sud di Tunisi": Gli articoli premiati Categoria: SOCIALE


Il sole sull’aereo spezzato: il disegno di Maria Grazia
La bambina, 11 anni, ha perso il padre in mare Piange, non parla. Poi racconta così il disastro

di Felice Cavallaro (CORRIERE DELLA SERA – 8 agosto 2005)

PALERMO — Terrorizzata e inzuppata, aggrappata per un tempo infinito a un braccio della mamma sua, quelle ali ridotte a zattera scivolosa, Maria Grazia piangeva e chiedeva «Dov’è papà, dov’è, dov’è?». Domanda ripetuta con ossessione poi sulla barca dei soccorritori, in ambulanza e nell’astanteria di Villa Sofia per una notte intera. Ma ieri mattina la piccola miracolosamente illesa, un visino dolce e intristito incastonato da un caschetto di capelli lunghi, ha capito. A 11 anni compiuti le lacrime della mamma, Flora La Catena, sono bastate. E muta s’è accucciata accanto a lei, apparentemente serena, senza più dire una parola, scrutando gli sventurati dello stanzone numero 37 salvati anch’essi da quelle ali galleggianti. A mezzogiorno non chiede più. Vede mamma che piange, un piede ingessato, il cuore a pezzi perché il mare nemmeno le restituisce il marito, e per consolarla Maria Grazia non domanda più. Tace. Facendo preoccupare gli psicologi che arrivano con carta e colori. Allora, si scioglie. Tratteggia fiori e prati per mamma.

Poi, in un angolo prepara il regalo per la caposala dagli occhi dolci, Cristina. Ed è a lei che infine racconta il disastro, senza parole. Con un disegno che diventa un’icona scolpita nel dramma di Palermo. E’ un aereo che corre a pelo d’acqua verso il sole, ma che s’arresta contro un muro blu, il mare con striature che richiamano i vortici di onde infide. Le ali sono quasi incollate al muso dell’aereo sul quale finiscono i riflessi del sole, come se i raggi potessero aiutare quell’ammasso di lamiera a galleggiare, a far da zattera per i sopravvissuti. Tutti sull’ala sinistra, indicati da una somma di puntini rossi. Lo squarcio al centro della fusoliera è un vuoto immenso dove i trattini marrone, verde e giallo sono forse un insieme di passeggeri, seggiolini e disperazione. Mentre tutt’intorno ondeggiano dei cerchi, forse i mulinelli che avvolgono uomini vinti e donne senza più la forza di combattere. Al contrario di mamma Flora che ha difeso la sua bimba fino all’arrivo dei soccorsi. Cronaca eroica illustrata anche con quella fusoliera spezzata che nel disegno di Maria Grazia è gonfia e cava come la balena di Pinocchio, pronta a inabissarsi nella voragine delle stesse onde schiaffate contro quanti erano riusciti ad aggrapparsi agli appoggi viscidi di quelle ali incerte. EmammaFlora dà voce al racconto, quando ai parenti arrivati da Bari evoca lo sforzo titanico per trattenersi su quella lamiera instabile e per non lasciarsi rubare dalla furia delle onde Maria Grazia, un fuscello che il mare come un mostro voleva far sparire in un boccone. E non c’è bisogno di conoscere l’italiano nemmeno per l’amica inglese arrivata da Londra con la sorella del papà di Maria Grazia.

Perché il dramma della signora Flora si legge in quelle braccia che mimano la fatica di stringere a sé la piccola, cosciente di essere stata in quei minuti lunghi come notti senza fine l’unica ancora di salvezza per la bimba e per se stessa. E tanta forza, spiega, mai l’avrebbe trovata se non per salvare la sua creatura. Così, è come se, a ruoli invertiti, fosse stata Maria Grazia a salvare lei. Dandole il coraggio di resistere, nonostante il corpo del marito galleggiasse senza vita lì a poche bracciate, per poi essere trascinato via dalla corrente, inghiottito dai gorghi come per uno scambio sacrificale. Parole meste che fanno da cornice al disegno regalato alla caposala con una dedica sul retro, «A Cristina». E lei si commuove, come la giovane psichiatra dell’ospedale, Santa Raspanti, ormai altra inseparabile amica di corsia per Maria Grazia, pronta a correre al bar per l’unico desiderio espresso, una coppetta di gelato, e tornare soddisfatta dalla piccola paziente che parla con i colori del suo papà.



Categoria: ETICA & MEDIA

Giornalismo e comunicazione: l'anomalia italiana e la voglia di etica
(saggio breve pubblicato sul periodico on-line IL DITO)


di Nino Milazzo

Nel Paese in cui gli assetti dell’universo televisivo e più in generale quelli della comunicazione s’incrociano massicciamente con la politica producendo il più grande conflitto d’interessi mai visto nel panorama delle democrazie occidentali, il dibattito in corso sui media in questa vigilia elettorale ci segnala in tutta la sua gravità la portata dell’anomalia italiana. Esplosa, nelle ultime settimane, con una virulenza senza precedenti, questa anomalia è testimoniata dai molteplici episodi di intolleranza e di prepotenza cui abbiamo assistito dal momento in cui la sciagurata legislatura dell’ultimo quinquennio si è avviata alla conclusione e si è aperta la corsa verso l’appuntamento col voto del 9 e 10 aprile. E’ inutile qui ricordare le invasioni di campo, gli incidenti di percorso, le sguaiatezze, i trucchi politico-istituzionali che hanno caratterizzato questa fase del confronto politico in cui i palinsesti televisivi sono stati piegati, sottomessi al furore propagandistico di chi detiene le maggiori leve del potere; una fase, in cui alcuni giornali stanno facendo scempio di ogni principio di civiltà dell’informazione.

Al centro della tempesta c’è ancora una volta la Rai, sempre più esposta ai venti mutevoli della politica, che ne condizionano o snaturano la funzione di servizio pubblico. Ma la prova più evidente e paradossale del grande malessere italiano in materia di libera informazione proviene da un dettaglio, che consiste nella ineludibile necessità di utilizzare una brutta legge, la legge sulla par condicio, per far fronte a una condizione di potenziale emergenza democratica. Sì, insomma, la par condicio come male minore: questa è la logica. Davvero grande è la confusione. Forse per questo, Paolo Mieli, è stato indotto a prendere l’iniziativa di annunciare in un suo editoriale la decisione di schierare apertamente il Corriere della Sera a favore del centrosinistra. Una presa di posizione che in America sarebbe salutata come un normale atto di doverosa lealtà e che in Italia suscita invece scalpore, se non scandalo. Anche questo particolare passaggio mediatico della marcia verso le elezioni è indicativo della situazione del nostro Paese, un Paese che stenta a recuperare la propria normalità, assimilando, tanto per cominciare, la cultura dell’alternanza. E stenta al punto di trasformare un fisiologico appuntamento elettorale in un’ordalia politica.

Ricordate? Al termine del primo confronto televisivo con Prodi, Berlusconi si è lamentato delle regole cui, per la prima volta, aveva dovuto sottostare per dire la sua. Eppure, proprio di regole c’è bisogno per riportare l’informazione al ruolo che le appartiene, soprattutto dinanzi alla complessità della politica. Queste regole sono poche e semplici e tutte ispirate ai principi dell’ equilibrio e del rispetto. Il primo dovere di un giornalista – precetto antico - è l’obiettività, che comporta come corollario la separazione dei fatti dalle opinioni. Un altro dovere è la completezza dell’informazione. Gli opposti di queste doveri sono la falsificazione delle notizie e la loro omissione. Ma quanti ricordano e applicano questi principi di base? La verità è che esiste una crisi della professione giornalistica. La quale è figlia di una crisi più vasta e profonda, che investe la società italiana. E dicendo questo, mi riferisco alle ombre del declino che stanno oscurando l’orizzonte del sistema-Italia, un declino inteso non in senso soltanto economico, ma anche culturale. Pessimismo? No soltanto preoccupata consapevolezza, dettata dalla mia ormai lunghissima esperienza di giornalista.

Proprio attingendo alla memoria, voglio sviluppare una mia riflessione. Fra i ricordi che mi legano al rapporto con Leonardo Sciascia, ce n’è uno molto amaro. E’ un ricordo che chiama in causa il ruolo dell’informazione e si collega a una parentesi significativa della vita italiana, quella che vide Sciascia scrivere per il Corriere della Sera il famoso articolo sui professionisti dell’antimafia. Quell’articolo passò per le mie mani, essendo io a quel tempo vicedirettore del giornale milanese. Prima di metterlo in pagina, il direttore di allora, Piero Ostellino, mi chiamò per valutare insieme la portata e le conseguenze di quello scritto, che andava a toccare un aspetto delicato della nostra realtà. Eravamo consapevoli che metterlo in pagina equivaleva a sfidare un tabù culturale e politico di quel tempo. Ma, fermo restando il principio intangibile dell’impegno a sostenere la lotta contro la mafia, non avemmo dubbi. L’articolo andava pubblicato per almeno due ragioni: primo, perché ci ripugnava l’idea di un atto di conformismo censorio; secondo, perché avevamo fiducia e rispetto per le opinioni di uno scrittore che incarnava quei valori della ragione che dovrebbero esser propri di ogni intellettuale.
Il 10 gennaio del 1987 l’articolo comparve sulla prima pagina del Corriere. E fu come un colpo di frusta sulla coscienza e sulla cultura di un Paese abituato a subire, più o meno consapevolmente, la forza egemone dei potentati politico-editoriali, che condizionavano o addirittura regolavano i meccanismi di formazione del consenso e, comunque, gli orientamenti dell’opinione pubblica. Le reazioni furono immediate e tutte negative: una vera sollevazione di tutti i sacerdoti e le sentinelle del tempio dentro cui venivano custoditi i sacramenti dell’antimafia. E, col trascorrere del tempo, le invettive si tramutarono in un linciaggio morale di Sciascia.

Sciascia divenne il bersaglio inerme di una ben definita tribù di politici, sociologi, intellettuali, giornalisti e Carneadi di varia estrazione, gli stessi che quasi tre anni dopo si ritroveranno compunti e pentiti ai funerali dello scrittore. Dinanzi a quella manifestazione di intolleranza, Ostellino si ribellò come potè, con i limiti, cioè, di un direttore ormai in uscita. L’editore, col quale era da tempo in conflitto, si accingeva, infatti, a sostituirlo. E il dimissionamento, infatti, non si fece attendere a lungo. Seguirono mesi difficili, che io dovetti gestire in solitudine in vista dell’arrivo del successore di Ostellino, che era Misha Kameneski, meglio conosciuto come Ugo Stille. Così, nel vuoto e fra le incertezze della transizione, il giornale che aveva lanciato il dibattito sui professionisti dell’antimafia uscì praticamente di scena, lasciando Sciascia esposto agli strali infuocati di un attacco senza tregua. Poco tempo dopo, io, per mia scelta, decisi di lasciare il Corriere della Sera.

E quanto a Stille, frattanto asceso al trono di via Solferino, preferì stare alla finestra.
Tacque il Corriere di Stille. Ma rimasero in silenzio molti altri. In verità, nessuno ebbe il coraggio e l’onestà intellettuale di interrogarsi sulle tesi dello scrittore, per discuterle e magari confutarle. Insomma, poteva, doveva essere un dibattito: divenne un’aggressione. E nel feroce trionfo di quella forma, diciamo così, di unilateralismo culturale, la responsabilità maggiore fu quella dei grandi giornali, nessuno dei quali prese l’iniziativa di fare quello che ogni buon giornale avrebbe dovuto “laicamente” fare in una simile circostanza: approfondire l’argomento e la situazione, ascoltando le ragioni di tutti e respingendo così la vaghezza delle posizioni puramente ideologiche come le logiche sclerotizzate delle appartenenze. Eppure, ci si trovava dinanzi a uno di quei casi in cui l’informazione è doverosamente chiamata a indagare prima di schierarsi, prima di dare sentenze. Un giornalismo che non fosse stato prigioniero di pregiudizi, di verità precostituite, di viltà acritiche, avrebbe, in quella circostanza, condotto un’inchiesta seria sull’universo dell’antimafia per andare a vedere com’era fatto, come si aggregava e come si muoveva. Nulla di tutto questo fu fatto. E, a distanza di tempo, Sciascia, uno Sciascia ormai minato nel corpo, ma vivo e vivido nella mente, mi confidò la sua delusione e sfiducia verso il mondo dei giornali. Poche parole, com’era nel suo stile. Un discorso, senza rancori né veleni, com’era nel suo costume.

Ma la sua determinazione emerse, ugualmente, con chiarezza. Sciascia mi disse che avrebbe rinunciato a collaborare con alcune testate e aggiunse che comunque sarebbe stato molto più selettivo nei rapporti con i giornali. E come dargli torto? I giornali, a cui tanto aveva dato, lo avevano abbandonato alla sua solitudine se non proprio tradito. Quella breve confidenza ha messo le radici nella mia memoria, dove la conservo come una lezione, come un esempio. Perché ho rievocato questo episodio? La risposta è semplice. Tutto il susseguirsi di quegli accadimenti assumono oggi il valore di un monito sui limiti che segnano e connotano un giornalismo, il nostro giornalismo, troppo spesso incline a preferire le scorciatoie delle semplificazioni acritiche ai percorsi più ardui e impegnativi dell’approfondimento, della verifica dei fatti come strumento insostituibile dell’obiettività.

Il ”caso Sciascia” – definiamolo così- risale a oltre 19 anni fa. Nel frattempo molti aspetti del nostro panorama editoriale e giornalistico sono cambiati. E non mi sembra siano cambiati in meglio. Soprattutto, nel progressivo modificarsi del contesto, al quale abbiamo assistito e stiamo assistendo, è peggiorata la mentalità che guida, che determina i comportamenti dell’informazione. Quali sono i mutamenti più significativi? E quali i fattori propulsivi che li sospingono? Tanto per cominciare si è progressivamente modificato il rapporto fra giornalismo televisivo e quello della carta stampata. Il primo ormai si è imposto come mezzo primario e diretto che i cittadini utilizzano di preferenza per conoscere le notizie provenienti da tutto il pianeta, da questo nostro mondo che diventa sempre più piccolo e abbordabile per effetto dello sviluppo della grande e potente macchina della comunicazione. A fine sera, fra un telegiornale e l’altro, tutti sanno che è cosa è accaduto di importante in ogni angolo del globo.
E l’indomani arrivano i giornali. E cosa propongono i giornali? Ecco il primo snodo. Un tempo la notizia rappresentava per i giornalisti della carta stampata il punto di arrivo del loro impegno; oggi, col primato della televisione, la notizia è o dovrebbe essere , in qualche misura, il loro punto di partenza. Ma quanti applicano queste nuove leggi dell’informazione? Quanti fra i responsabili dei nostri giornali sono consapevoli che una più netta linea di demarcazione andrebbe tracciata per impedire che i giornali diventino uno specchio della televisione più di quanto non lo siano già oggi: nei contenuti, nei gusti, nel linguaggio? E qui, proprio partendo da questi interrogativi, entra in gioco il ruolo del giornalismo politico e quello di inchiesta, un tipo di giornalismo, quest’ultimo, che, aprendo nuove strade e liberando nuove energie professionali, dovrebbe trovare maggiore spazio, proprio per le ragioni appena indicate. Ma non sempre questo accade ed è presumibile che sempre meno accadrà. Eppure si tratta di una scelta che fornirebbe – suppongo – la risposta più efficace ai problemi di un giornalismo scritto che appare sempre più in soggezione di fronte al prepotente, galoppante modello televisivo. Di là dal confronto televisione-carta stampata, vale la pena di mettere contro luce il tema complessivo del giornalismo politico e di quello d’inchiesta. E’ opinione diffusa che su questo versante il bilancio del giornalismo italiano sia molto debole, soprattutto rispetto al giornalismo anglo-sassone.

Ma bisogna subito chiarire che questa comparazione viene spesso deformata da un approccio che è un po’ distorto da luoghi comuni e approssimazioni. In buona sostanza, la nostra tradizione non è povera come comunemente si dice; avara è, invece, la prospettiva e asfittico il presente. Facciamo un po’ i conti. In questo campo, nel campo del giornalismo d’inchiesta, è fuor di dubbio che l’America ha dato esempi altissimi, primo fra tutti – quasi superfluo ricordarlo – quello legato allo scandalo del Watergate, culminato nelle dimissioni del presidente Richard Nixon. Ma proprio quell’episodio che ha visto una coppia epica di giornalisti, Bernstein e Woadword, sconfiggere il grande monarca repubblicano della Casa Bianca, ha creato un alone leggendario attorno alla capacità investigativa della grande stampa USA. La verità è che in America la pratica di questo tipo di giornalismo è molto sviluppata, ma è anche vero che il New York Times, appena qualche anno fa, ha dovuto accusare il colpo dello scandalo Blair, il giornalista che raccontava panzane. Il giudizio, insomma, dev’essere più cauto. E se si esercita questa cautela, si scopre che in definitiva anche il giornalismo italiano ha prodotto buoni esempi di giornalismo d’inchiesta. E non solo in tempi recenti. Ai giovani bisognerebbe rammentare che fu il grande Montanelli a condurre, sul Corriere della Sera, una imponente indagine sull’ENI di Mattei negli anni Sessanta. E ancora prima era stato un altro grande inviato del Corriere, Tommaso Besozzi, a scoprire la verità sull’uccisione del bandito Giuliano. E in tempi meno lontani fu Camilla Cederna che accese sull’Espresso la miccia delle dimissioni del presidente Leone. E ancora, venendo più vicini a casa nostra, sul fronte tragico della mafia, Mauro De Mauro, Mario Francese, Pippo Fava, altri nostri colleghi perché sono morti se non perché cercavano verità difficili e rischiose? Come Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, impegnate e cadute su altri versanti dell’informazione, quello del terrorismo e quello della guerra. Vogliamo andare avanti e approdare ai giorni nostri? Ebbene è stata Rainews 24 che ha rivelato, appena alcune settimane fa, l’impiego di ordigni al fosforo bianco da parte delle forze americane a Falluja, in Irak. No, gli esempi davvero non mancano.

Siamo certi che anche l’informazione italiana ha prodotto dei buoni risultati, pagando spesso dei prezzi dolorosi. E tuttavia non si può non nutrire preoccupazione dinanzi ad alcuni processi di trasformazione in atto nella società italiana e ad alcune tendenze della politica che potrebbero ripercuotersi negativamente sulla qualità dell’informazione in generale e del giornalismo politico in particolare. Una prima questione scaturisce dalla pressoché totale estinzione della figura dell’editore puro, dell’editore che si identificava esclusivamente col suo prodotto, l’editore insomma che garantiva, per così, una trasparenza oggi largamente compromessa dalla diversificazione degli interessi, che è in atto nel panorama editoriale italiano. E’ davanti agli occhi di tutti come la proprietà di gran parte degli organi di informazione sia detenuta da imprenditori e finanzieri le cui attività inevitabilmente condizionano le scelte dei direttori, quando non divergono da quelle proprie di una buona informazione. Quante sono le inchieste alle quali si rinuncia per non toccare gli interessi dell’editore?

E quale credibilità può avere l’inchiesta condotta da un giornale o da una emittente televisiva quando si entra in terreni contigui o opposti a quelli dell’editore? E che cosa succede quando la proprietà è così composita da rappresentare posizioni fra di loro concorrenti? Altro discorso spinoso è l’invadenza crescente della pubblicità con tutte le conseguenze immaginabili sull’autonomia delle redazioni. Infine un altro aspetto, non meno inquietante: quello della politica. Dopo il crollo dei partiti investiti dall’onda d’urto di Tangentopoli, abbiamo registrato la conversione del sistema a un assetto bipolare. Ma questo processo politico-istituzionale non è stato accompagnato da una adeguata elaborazione culturale, tale da consentire una metabolizzazione del nuovo sistema. Un ritardo culturale che non ha risparmiato nemmeno il mondo dell’informazione, contagiato dal virus di una distorsione che ha trasformato il bipolarismo in un ring in cui il confronto viene sostituito dalla contrapposizione. O stai di qua o stai di là. E se pretendi di stare nel mezzo, giudicando il caso per caso, lontano dalle logiche degli schieramenti, diventi uno sporco terzista, da additare al pubblico ludibrio.

E l’autonomia, l’indipendenza del giornalista? E l’obiettività, come fondamento della professione giornalistica? Qual è la sorte di questi antichi e irrinunciabili valori – definiamoli così – che hanno nutrito la nostra formazione di operatori dell’informazione? Nessuno può prevedere quel che ci attende. Lo stesso bipolarismo di cui si diceva prima sembra già avere il fiato grosso. Tutto in questo momento appare in discussione. I timori restano. E concludo. Nelle guerre moderne è sorta una figura nuova: quella del giornalista embedded, del giornalista che deve accettare di essere intruppato in un reparto combattente se vuole fare il suo mestiere. Io ho conosciuto grandi inviati di guerra come Egisto Corradi ed Ettore Mo, con i quali ho lavorato nei miei anni di Milano. Grandi giornalisti, che andavano sui campi di battaglia senza chiedere permessi e avevano un unico vincolo: quello di testimoniare liberamente e di raccontare fedelmente ciò che avevano visto. I tempi sono cambiati, si è detto. E la figura del giornalista embedded rischia di trasmigrare dalle scene di guerra alle scene della politica e dell’economia. Un rischio che non può non allarmare chiunque fra i giornalisti sia geloso della propria indipendenza. E tutto questo, ricordiamolo, riguarda direttamente i cittadini e il loro diritto di essere informati: informati correttamente. Infine, una considerazione, quasi tecnica.

Quando si dice che bisogna liberare il giornalismo politico dalla galera delle dipendenze e nello stesso tempo promuovere il giornalismo d’inchiesta, si vuole intendere anche che è necessario tornare al culto della notizia, sommerso troppo spesso dalle pigrizie, dalle negligenze che si annidano nelle redazioni. La regola è antica: è il giornalista che, generalmente, deve andare alla notizia e non la notizia al giornalista. Morale: c’è sicuramente un sistema da riformare; ma anche la mentalità dei giornalisti ha bisogno di essere corretta. E, stringi stringi, tutto il discorso finisce per sboccare in una grande esigenza comune a tutti i settori della vita italiana: il cambiamento.



Categoria: REPORTAGE E ATTUALITA’

Vittoria: la terra dei morti viventi

di Giuseppe Lazzaro Danzuso (LA SICILIA – 12/8/2006)
VITTORIA. «Apriamo gli occhi sui morti viventi». L’invocazione è di padre Beniamino Sacco, 62 anni, coscienza critica di Vittoria. I «morti viventi» sono gli immigrati clandestini, trattati come animali o peggio, da una società che, dice il prete «stringe gli occhi per non vedere». La città opulenta delle serre, per mantenere anche in tempi di crisi un certo tenore di vita s’è inventata una moderna forma di schiavismo sfruttando gli immigrati dell’est. Rosalino Bocchieri, 47 anni, responsabile zonale della federazione braccianti agricoli della Cisl, conferma: «La capanna dello zio Tom è a Vittoria: qui ci sono situazioni di autentico schiavismo che denunciamo periodicamente, ma a parte qualche attentato, non otteniamo risultati. C’è chi si accontenta persino di 10 euro al giorno, ma senza denunce specifiche non possiamo far nulla». Alla denuncia si unisce anche un imprenditore agricolo, Giuseppe Genovese, 44 anni, nella cui azienda lavorano una diecina di extracomunitari, tutti regolari, in prevalenza albanesi.

Parla con disprezzo di chi «accontenta la povera gente con un pezzo di pane, usando su di loro anche la forza, come fossero schiavi». I clandestini, insomma, sono utili quando devono fare a bassissimo costo lavori pesanti o pericolosi, imbarazzanti se si feriscono o stanno male. Così, se va bene, li scaricano al Pronto soccorso, come ci conferma il primario dell’ospedale vittoriese, Francesco Palumbo, 54 anni. «Dei 34.000 interventi del 2005 - dice - 4.000 riguardavano extracomunitari che regolarmente dicono di aver dimenticato i documenti, soprattutto se coinvolti nei frequenti incidenti di lavoro. Ovviamente nessuno si sogna di denunciare il proprio "donatore di lavoro", come lo chiamano. Noi siamo costretti a prendere per buono quanto ci dicono. Ecco perché sarebbe importantissimo un posto di polizia nel Pronto soccorso». Ma a volte non va bene.

Padre Beniamino, parroco della chiesa Spirito Santo - e direttore dell’omonimo centro d’accoglienza che in vent’anni ha ospitato oltre diecimila extracomunitari - racconta una storia agghiacciante, una delle tante. «Un tunisino di una trentina d’anni - dice - ebbe un incidente sul lavoro, grave, al braccio. Il suo datore di lavoro lo minacciò con la pistola: vattene, non voglio guai. Ora quel giovane vive come un animale braccato, dormendo dove può e campando di elemosina». Ma cosa, se non un’elemosina, è una paga di dieci euro giornalieri per lavorare dodici ore al giorno, con la possibilità di dormire in uno dei fatiscenti casolari nelle campagne tra Gela e Vittoria. «E’ agghiacciante - racconta il dottor Palumbo - vederseli improvvisamente davanti, illuminati dai fari, che camminano per chilometri in fila indiana, al buio, rischiando di essere investiti».

Lo sfruttamento si aggrava quando si tratta di giovani donne dell’est, come sottolinea padre Beniamino. E il dottor Palumbo conferma: «Solo nello scorso anno - racconta - sono state oltre duecento le giovani donne dell’est portate qui con veri e propri attacchi isterici. E’ pensabile che siano vittime di continue violenze psicologiche per ottenere favori sessuali. Ma non possiamo far nulla, se non dar loro venti gocce di valium». Il medico racconta che questi uomini e queste donne sono sempre malaticci: «Avrebbero bisogno di antibiotici: quando possiamo diamo loro i campioni gratuiti, ma il problema è che non hanno diritto all’assistenza perché, formalmente, non esistono». E vengono tenuti continuamente sotto scacco dai «donatori di lavoro» che minacciano di denunciarli come clandestini. «E’ quello che avviene - dice padre Beniamino - con molte badanti, che con 400 euro al mese devono essere disponibili 24 ore su 24 e magari andare a letto con qualcuno».

Il sacerdote punta il dito anche contro «organizzazioni religiose che, credendo di mettersi al servizio di persone che nei loro Paesi lottano contro la miseria, in buona fede li aiutano a entrare in Italia e finiscono con il ledere la loro stessa dignità di uomini e donne». «Perché qui - aggiunge - queste persone diventano morti viventi, paria costretti a vivere come talpe. Ed è ora che non soltanto Vittoria, ma l’Italia intera smetta di tenere gli occhi serrati: lancio un appello al ministro dell’Interno Amato perché venga qui a vedere di persona cosa accade». Il fatto è che a molti questa realtà conviene. «C’è stato - racconta padre Beniamino - un importante membro della nostra comunità che mi ha detto: "Lei, facendo questi discorsi si mette contro i vittoriesi". Perché la mentalità è questa: sono solo dei morti di fame, quindi devono accontentarsi di quello che diamo loro». Giuseppe Nicosia, 42 anni, da un mese sindaco di Vittoria «la non regolarità nelle assunzioni è il male minore: quel che non accetto è la mancanza di umanità». «E poiché - aggiunge - il Comune è anche un’agenzia educativa, ci faremo carico di questo che è anche un problema culturale con indagini sociologiche, convegni, sollecitazioni al governo nazionale, reti di solidarietà. Oltre a chiedere alle Forze dell’ordine di monitorare costantemente la situazione delle aziende». «Noi siciliani - aggiunge padre Beniamino - che ci professiamo antimafiosi, non ci rendiamo conto che questo sfruttamento è la vera mafia. E ci sono problemi anche più gravi che ho già denunciato nei mesi scorsi. Mi riferisco alle sparizioni di bambini e ragazzi extracomunitari».

«Occorre - afferma al proposito il sindaco - uno sguardo molto più attento da parte dello Stato su questo problema terribile che comprende una vasta gamma di reati, dall’adozione internazionale clandestina all’orribile ipotesi del traffico d’organi». Storie terribili, quelle apprese qui, che si stemperano nel sorriso di Delina, nata esattamente un anno fa nel centro di accoglienza di Vittoria. E nel cortile del centro, un segno di speranza: bambini d’ogni razza, d’ogni colore di capelli dal nero corvino al biondo platino che parlano tutti, rigorosamente, il vittoriese.



Categoria: CULTURA E STORIA

Da Cefalonia ai lager, diario di un doppio sopravvissuto

di Vincenzo Grienti (AVVENIRE – 27/7/2005)
Don Wactaw Zawadzki, un giovane sacerdote polacco, aveva scelto una frase da scrivere nel retro dell'immaginetta raffigurante la Madonna con Gesù Bambino: «Rendere grazie a Dio, sempre, ovunque, per ogni cosa». Un dono per condividere la gioia della sua ordinazione sacerdotale avvenuta in Polonia, a Oszmianie, il 18 giugno 1944. Un regalo speciale che Angelo Emilio, classe 1920, tra i reduci della Divisione Acqui scampati all'eccidio di Cefalonia tiene stretto in mano ogni volta che dal cassetto della sua scrivania tira fuori le memorie su quanto accadde nell'isola greca dopo la firma dell'armistizio l'8 settembre 1943 ai 10 mila italiani per mano tedesca.

«L'orrore delle decimazioni da parte dei tedeschi ad ogni sosta forzata, l'atroce tragedia consumata alla famigerata casetta rossa viaggiò per ventotto giorni con me e il mio concittadino Giovanni Santaera, entrambi sopravvissuti e stipati nel treno-tradotta diretto verso Minsk, in Russia - racconta l'ex caporale maggiore del 317° reggimento fanteria destinato al plotone Mortai 81 di stanza a Kardakata -. Ai lavori forzati nella caserma Mussolini di Cefalonia, trasformata in campo di concentramento, si aggiunsero quelli a cui eravamo costretti nei luoghi di prigionia sovietici. Quando l'esercito russo avanzò ai danni di quello nazista, i tedeschi ripiegarono verso la Polonia. Qui, il 10 luglio 1944, al confine con la Lituania, incontrai don Wactaw. Il prete ci diede speranza, pregammo insieme, era dispiaciuto per noi e siccome non parlava italiano cercai di farmi capire parlandogli quel poco di latino imparato al liceo». Don Zawadzki diede al prigioniero l'immaginetta della sua ordinazione, avvenuta meno di un mese prima, e nonostante il rischio di essere scoperto dai tedeschi - prosegue l'ex militare - «mi confidò che attraverso la madre mi avrebbe inviato del pane. Ci salutammo, mi strinse le mani, accennò a un segno di croce.

Per un attimo la fede, il nostro essere cattolici, dire no alla guerra e sì alla dignità umana ci unirono solo con lo sguardo». Dopo poche ore la «manna» per chi non aveva toccato cibo da giorni arrivò attraverso un'anziana polacca. «Piansi alla vista della donna che sotto il grembiule nascondeva il prezioso carico - ricorda il reduce -. Ringraziai Dio, pensai a mia nonna, a mia madre. Avrebbero fatto lo stesso». Nella Polonia distrutta dai bombardamenti Angelo Emilio pensò ai caduti di Cefalonia: «Fare memoria significa anche rendere omaggio a testimoni di fede come padre Romualdo Formato - aggiunge Emilio mentre la brezza marina entra dalle persiane della sua casa di Pozzallo, dove vive con la moglie Celeste -. Missionario del Sacro Cuore e cappellano militare al 33° reggimento artiglieria della Divisione Acqui, padre Formato era un grande uomo, sensibile e attento a tutti».

Emilio lo ha sempre portato come esempio di vita anche ai giovani del circolo di Azione cattolica San Tarcisio della sua città: «Quando solo un soldato era triste o depresso si avvicinava e offriva pillole di spiritualità e di Vangelo». Una figura emersa con i tragici fatti della «casetta rossa» di Capo San Teodoro dove vennero fucilati 260 ufficiali; il missionario riuscì a salvarne solo 37 ma ne perpetuò poi la memoria pubblicando uno dei primi resoconti della strage di Cefalonia. Oggi Angelo Emilio, insignito della Croce al merito di guerra, tra le cose più care, oltre all'immaginetta di don Zawadzki, conserva proprio le lettere di padre Romualdo: «Devi essere davvero grato a Dio per tutte le grazie che ti ha fatto, specialmente per averti salvato la vita da quella tragica carneficina di Cefalonia e nei campi di prigionia - gli scriveva in una missiva del 7 ottobre 1946 padre Romualdo -. I voti e le preghiere di tua madre sono stati accolti dal Signore e misericordiosamente esauditi».
Fonte: Cinecircolo Socio-Culturale "Don Bosco" Portopalo il 29-09-2006 - Categoria: Cultura e spettacolo

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