Quando ero ragazzo, passavo le lunghe vacanze estive a Cervo Ligure, un piccolo, bellissimo paese tra Alassio e Imperia. Ogni mattino, verso l’una, se avevo fatto il bagno nella spiaggia più famigliare, il Pilone, pieno di scogli e scoglietti coperti di alghe, tornavo a casa, in cima al paese. Con la gioiosa ed ansiosa velocità della giovinezza, risalivo centocinquanta ripidi scalini. Correvo. La prima rampa era la più dura. Poi s’allargava una piazzetta.
C’era unvecchio palazzo in rovina: dove, in una specie di antro, abitava l’unico barbiere-parrucchiere di Cervo Ligure. Credo che ci dormisse, in un lettuccio lungo la parete. Era il più povero barbiere, che abbia mai conosciuto: molto più povero di Geppetto. Nell’antro dipinto di calce bianca come una moschea del Sahara, non c’era quasi niente: solo un vecchio rasoio, un paio di forbici, un pettine, una grossa brocca piena di acqua fredda, un fornellino che cercava timidamente di produrre acqua tiepida, una sedia, un bacile sopra un treppiede. I föhn e le macchinette superavano le possibilità finanziarie dei barbiere. I clienti erano pochissimi: pescatori di origine napoletana; gli appena abbienti andavano dai sontuosi parrucchieri di Diano Marina, a tre chilometri. Sopra la sedia stava un giornale di Genova, La Gazzetta Mercantile: sempre lo stesso giornale, di alcuni anni prima, che doveva placare le curiosità intellettuali dei clienti.
Il vecchio barbiere aveva i modi e l’eleganza di un principe o di un duca alla corte di Versailles, al tempo di Luigi XIV. Salutava con discrezione e grazia, con un lieve cenno del capo: aveva un particolare sorriso per me, perché appartenevo ai potenti (senza potere) di Cervo Ligure.
Quando arrivavo davanti al suo antro, stava pranzando. E mi invitava con un sorriso dolcissimo: “Vuol favorire?”. Era un gesto puramente simbolico, che apparteneva alla sua buonissima educazione. Nulla di reale gli corrispondeva, perché né lui voleva separarsi dal suo poco cibo, né io volevo intingere la forchetta in un bacile, che assomigliava pericolosamente al bacile che gli serviva per insaponare i clienti.
Non mangiava mai né carne né pesce, perché costavano troppo. Il suo pranzo era sempre e soltanto il condijun ligure (che i liguri colti traducevano in italiano con condiglione): vale a dire, cipolla, basilico, peperoni, insalata, qualche oliva, qualche acciuga, e soprattutto POMODORO.
Quasi tutto era stato coltivato nella sua piccola “fascia”, cinquanta metri quadrati di terra, che possedeva oltre il paese, sotto gli ulivi. Là passava le domeniche, a spostare un sasso, rafforzare un muretto, livellare il terreno, sbriciolare una zolla, piantare canne, annaffiare (parcamente) i suoi buonissimi pomodori. In quegli anni, il pomodoro costituiva per me il cuore del mondo. Non la salsa di pomodoro, o il pomodoro al riso, che sono già degenerazioni, ma il puro pomodoro, condito con olio e sale. Lo mangiavo senza stancarmi mai, perché mi sembrava che non sopportasse paragoni nemmeno con i capolavori della cucina ligure: la torta pasqualina, e la cima. Il pomodoro era il frutto supremo del Mediterraneo: indorato, accarezzato, amato dal sole, che formava dentro di lui la polpa sostanziosissima, dove affondavo i denti, la pelle delicata, i semi, il profumo squisito, il colore, degno di Chardin e di Veronese. Quando lo mangiavo, ero penetrato dalla sostanza del sole, trasformato in una pianta.Insieme al cattolicesimo, costituiva l’essenza della civiltà mediterranea: stemperava gli eccessi ascetici della religione, invocava indulgenza per i nostri peccati, ricordava che noi siamo, in primo luogo, corpi.
Oggi i pomodori sono morti, come è quasi morta la pittura.
Spero che la morte della pittura sia temporanea, ma temo che quella dei pomodori sia irreversibile. I frutti, che, in qualsiasi regione italiana, ci portano in tavola, hanno quasi tutti la stessa forma: mentre il vero pomodoro ha forme diverse, complicate, con spaccaturee screziature, e talvolta generosi, aspetti barocchi, che piacevano ai pittori, napoletani del diciassettesimo secolo. Non sanno di niente. Sono pieni d’acqua, mentre i pomodori del mio barbiere venivano innaffiati da ruscellini magri e parsimoniosi. Con la morte del pomodoro abbiamo perduto moltissimo, assai più di quanto sospettiamo. Un tempo la polpa, il succo e il colore passavano al cervello, irrorandolo di sé, come il pomodoro veniva penetrato e irrorato dal sole. Mi consola sapere che, dall’altra parte del Mediterraneo, dalla quale oggi ci dividono falsi scontri religiosi, pomodori buonissimi come quelli della mia giovinezza vengono coltivati nelle oasi vicine al Sahara, sotto gli alberi di palma. Anche là l’acqua è poca: lo uàdi scorre lentamente da migliaia di anni, senza interrompersi, e poi si perde nelle profondità del deserto. Non ho la minima vocazione per gli affari: se fossi amministratore delegato di un’azienda, la farei fallire in quindici giorni, persino la Microsoft di Bill Gates. Ma oso avanzare una timida proposta. Non ci sarà, da qualche parte, in Liguria, o nelle Puglie o in Sicilia, un giovane, audace imprenditore, capace di far rinascere i pomodori? Non ci vogliono molti capitali: eccellenti semi, poca acqua, sole, diligenza, attenzione, precisione, accordo con qualche supermercato. I veri pomodori hanno un grande pubblico: quasi come i libri di Alessandro Baricco.
In piccola parte, potrei contribuire al finanziamento. Come molti, sarei disposto a pagare i veri pomodori almeno venti euro al chilo.
(Piero Citati, la Repubblica)
Fonte:
Fruitecom.it il 06-09-2006 - Categoria:
Attualità