Reperti preziosi ancora da svelare

Le moderne tecniche di scavo archeologico sono paragonabili, sempre più, allo sfogliare di un libro le cui pagine siano rimaste incollate l'una all'altra, nelle quali è possibile leggerne il contenuto una sola volta, poiché per leggere la successiva la precedente va cancellata, alienata, scomposta, distrutta potendo solo conservarne qualche frammento di parola, una frase, un'immagine. Si tratta di un libro in cui neppure margini sono identificabili con certezza, pertanto, ci si limita a sfogliarne solo una parte e magari la restante si lascerà per successive letture in tempi per i quali si prevede una maggiore conoscenza dell'argomento e magari nelle stesse "pagine" potervi leggere maggiori informazioni che le nuove tecniche stratigrafiche avranno, intanto, migliorato.

La ricerca, ormai da qualche tempo, non mira più all'accumulo di reperti preziosi (sempre graditi nei ritrovamenti) ma alla pura conoscenza di quanto è avvenuto nei secoli in quel luogo che il caso ha identificato come foriero di presenze archeologiche, ossia di documenti materiali appartenuti a varie civiltà che vi si sono sovrapposte. Spesso, lo scavo è il solo documento che c'informa di fatti dei quali nulla è pervenuto in forme orali o scritte di quanto sia successo, nei secoli passati, in quel luogo.

Per decenni, l'ignoranza dell'esistenza di residenze romane con un certo pregio, in Sicilia, ha fatto nascere il mito della villa imperiale del Casale che, per la ricchezza dei suoi pavimenti, ma invero anche per i reconditi significati che vi si celano, fu data per certo come la residenza di un imperatore (ipotesi non del tutto priva di fondamento). Sta, di fatto, però, che nel territorio siciliano di ville romane di un certo prestigio se ne vanno rinvenendo in numero sempre più cospicuo, con grande stupore e sbigottimento di quanti si debbono ricredere su ipotesi già assodate. Le ville di Patti Marina, del Tellaro, di Avola, di San Biagio, del Castellito, di Chiaramonte Gulfi, e le residenze lussuose di Taormina, Palermo, Mozia e Solunto hanno rimesso in discussione l'intero sapere sull'argomento. Di certo, fra tutte, quella che maggiormente supporta confronti con la villa del Casale è quella del Tellaro cosiddetta poiché si trova nei pressi di quel fiume già in vista dell'antica città di Eloro.

Il monumento attraversa una fase delicata dovuta a complessi interventi di restauro. Si giunge alla Villa percorrendo la strada che collega Noto con Pachino, superato il ponte sul fiume Tellaro, a destra s'imbocca una trazzera e, percorso un centinaio di metri, si giunge all'ingresso della masseria ma già dal ponte si vedeva il complesso dei volumi che si stagliano, di un bel giallo chiaro, sul verde ombroso degli ulivi, dei mandorli e dei carrubi.

La masseria conserva ancora inalterati i suoi caratteri distributivi potendovi distinguere gli alloggi per i padroni; le stanze per i campieri; i depositi di derrate e quelli degli attrezzi. Nonostante la vita della masseria si fosse assopita, ormai da tanti anni, basterebbe un nulla per rivedere le galline starnazzare nel cortile, i cani dormire all'ombra di un muro, un gatto strusciare la coda tra le gambe della massara che prepara le conserve ed un gruppo di anziane a sferruzzare lana all'ombra dei mandorli dentro l'aia tonda che a tempo debito serviva per spagghiare ma anche per stendere le mandorle e le altre cose ad asciugare al sole. Non sembra posto per uomini questo, che di giorno stanno nei campi a lavorare, compresi i ragazzi: torneranno tutti la sera, dopo il tramonto, per darsi una lavata, mangiare e andarsene a letto per recuperare le forze per il giorno dopo.

Queste grandi masserie erano abitate tutto l'anno ed erano delle piccole isole autonome dove si cercava di produrre tutto il necessario per la vita di ogni giorno. I terreni attorno servivano per la produzione principale che era quella che dava ricchezza ai padroni ma producevano anche tante altre cose in minore quantità, in parte destinate alla vita di chi si trovava a vivere nella masseria, in parte da inviare dentro festosi cestini ai padroni che vivevano in città. E poi c'erano gli animali che producevano uova, latte ma anche carne.

Che sotto le fondamenta di questa masseria si celasse qualcosa di più antico si sapeva e si capiva da quello che ogni tanto veniva alla luce in modo casuale ma non gli si dava alcuna importanza e si tornava a ricoprire ogni cosa concentrando l’interesse unicamente sul lavoro. Di quanto era stato visto sotto il terriccio della stalla o di fianco allo scarico dell’acqua non se ne parlava neppure.

La scoperta del monumento avvenne nel periodo in cui la masseria non fu più abitata, sorte che toccò alla maggior parte delle masserie siciliane. I grandi feudi si spopolarono e dopo la Seconda guerra mondiale, poco per volta, i contadini preferirono cambiare mestiere ed inurbarsi con le loro famiglie diventando muratori, commercianti, imprenditori.

In questo stato di abbandono la masseria divenne preda di interessi altri: scavatori clandestini, indisturbati, saggiarono il terreno, bastò poco, e appena sotto la masseria vennero alla luce pavimenti rivestiti con mosaici di una ricchezza di forme e di colori mai visti prima. La sera, a Noto, nei bar, non si parlava d’altro. Si favoleggiava di tesori inestimabili, di una villa romana ancora più ricca di quella del Casale a Piazza Armerina. Si cominciava ad ipotizzare uno sviluppo turistico di alto livello e la possibilità di un nuovo benessere per tutta la popolazione. Ancora, il barocco netino e le emergenze archeologiche del territorio non avevano dato i frutti sperati, si puntava, quindi, sulla nuova scoperta.

L’intervento della Soprintendenza scoraggiò molte aspettative: furono eseguiti dei saggi di scavo e posti in luce grandi capolavori dell’arte musiva. Si decise che era meglio asportare i pavimenti per meglio proteggerli e curarne il miglior restauro. Non tutti. Alcuni mosaici rimasero in loco ma prudentemente ricoperti con uno spesso strato di sabbia fine. Per decenni Noto chiese che i mosaici tornassero al loro posto e che la villa assumesse la valenza di prestigio che le toccava in seno al patrimonio culturale dell’Isola.

La bellezza di quelle opere si poteva solo immaginare attraverso le sempre più deboli immagini che erano mostrate all’interno di una delle camere a piano terra adattata ad “antiquarium”. La Villa del Tellaro era regolarmente aperta al pubblico, vi si poteva osservare anche un rilievo planimetrico con la sovrapposizione delle due emergenze: la villa romana e la masseria ottocentesca. Vi si rilevava come non vi fosse alcun collegamento tra le due costruzioni e quella ottocentesca si limitava ad impiegare solamente i materiali litici per la nuova costruzione. Dell’impianto planimetrico della villa romana si sa che era disposta su più livelli, per la presenza di scale, e gravitava attorno ad un peristilio, di circa venti metri di lato, con largo portico e disponeva di numerosi locali quasi tutti rivestiti, nei pavimenti, con mosaici di grande effetto decorativo, compreso quello della zona porticata che presenta decorazioni d’impostazione geometrica con medaglioni intorno ai quali si snodano, intrecciandosi, corone di rami di alloro.

L’influenza, o addirittura la presenza, di maestranze nordafricane, così come per la Villa del Casale, appare scontata ed anche se ancora non si vuole parlare di un’unica attribuzione ad un anonimo artista, si è certi che si tratta di espertissimi esecutori, dalla grande intesa, attenti alle vibrazioni di luce di ogni singola tessera ed ai passaggi tonali e chiaroscurali che esaltano la plasticità dei volumi raffigurati.

La varietà delle figurazioni è straordinaria ma ancor più interessante è il modo di orchestrare le singole composizioni entro l’intero complesso musivo di una stessa camera. Non le scene composte isolatamente ed unificate con fondi anonimi, seppur bellissimi, come nella Villa del Casale, ma rapporti reciproci ed armonici che legano le varie parti fondendole entro un’unica composizione di largo ed unitario respiro.

Questo della valle del Tellaro, in prossimità della foce, è il luogo dei miti demetriaci. Gli antichi greci eressero molti monumenti, anche piccoli, alla Dea e vi portavano offerte. In prossimità della Villa del Tellaro, entro il tondo della “spagghiata” si trovano vari blocchi di calcare tagliati alla maniera greca con i caratteristici fori da sollevamento. Potrebbero aver fatto parte di uno di quei tempietti eretti lungo il corso del fiume lungo il quale Dèmetra cercò appassionatamente la figlia Kore.

di Gaspare Mannoia
Fonte: LaSicilia.it il 14-06-2003 - Categoria: Cultura e spettacolo

Lascia il tuo commento