Vitaliano Brancati, la letteratura malinconica: Lo scrittore siciliano del "Bell'Antonio", raccontato da Giulio Ferroni, auto

L’intensità umorale di Vitaliano Brancati (Pachino 1907 - Torino 1954), che attraverso gli eccessi dei suoi simili ha rappresentato la sicilianità non come colpa, ma come coscienza infetta e dolorosamente esposta, è la cifra più alta dei Racconti, teatro, scritti giornalistici contenuti in un volume dei Meridiani pubblicato da Mondadori a cura di Marco Dondero (pagine 1866, 49 euro). Se tutta la sua opera narrativa trabocca di materiale autobiografico, essendo essenzialmente diaristica - come direbbe Sciascia- la sua natura di scrittore, dalla miscela degli scritti di questo Meridiano, viene fuori, secondo l’acuta analisi di Giulio Ferroni, autore di un ampio saggio introduttivo, un autore «assolutamente atipico nella cultura italiana, che sfugge alle grandi categorie e agli schemi di periodizzazione a cui si suole sottoporre il nostro Novecento». In tutto quello che faceva Brancati coinvolgeva la sua anima innestandovi la volubile vivacità dell’inventiva. Un aspetto questo che in lui era ripetizione ossessiva ma anche forza contundente con la quale imponeva un concetto esistenziale che la critica, agli inizi, penalizzò in modo eccessivo, attribuendo il termine gallismo ad alcuni suoi romanzi.

Professor Ferroni, cosa ha significato per Brancati essere uno scrittore meridionale?
«Ha significato confrontarsi, prima di tutto, con la dimensione solare, epidermica, quotidiana della vita del Sud, nell’ottica di una cultura diversa. Nei suoi scritti c’è una grande capacità di guardare agli aspetti più affascinanti, più carichi di vita della sua terra, dal punto di vista di una cultura europea che sa confrontarsi, anche paradossalmente, col Nord».

Gli scrittori meridionali, quali contingenze, quali sentimenti esprimono più fortemente?
«Gli scrittori meridionali sono tutti molto diversi tra loro, e hanno un fondo cupamente tragico, perché la solarità dell’isola si associa anche a qualcosa di tremendamente malinconico. Anche in Brancati in certi momenti si affaccia questa dimensione malinconica, ma in lui c’è una volontà di salvare la vita, la felicità, la presenza dei profumi e dei colori quotidiani, pur sapendo che tutto ciò è sottoposto a contraddizioni».

Rispetto ad altri scrittori siciliani in che cosa è diversa la Sicilia di Brancati?
«La Sicilia di Brancati è una terra sovraccarica di profumi e di colori, veramente barocca, guardata però nello stesso tempo, con occhio lucidamente razionale da una ragione illuministica. Fra tutti gli scrittori siciliani, Brancati credo sia quello che più ha mantenuto un rapporto vivo con la tradizione. Un altro scrittore dell’illuministica siciliana, ma molto diverso da lui perché manca del senso del comico, è Sciascia. Volendo, c’è un filo rosso che li collega. Lo scrittore di Racalmuto, quando studiava nelle scuole superiori aveva, non nella stessa classe, ma nella stessa scuola, Brancati come professore. Il filo proprio che li collega è quello della tensione illuministica».

Come traduceva la tradizione locale in naturale fermento valido per tutti gli uomini della terra?
«Questa è una caratteristica della grande letteratura siciliana. Sciascia parla spesso della Sicilia come metafora perché l’isola riesce ad essere metafora del mondo. Anche parlando di una realtà molto minuta, particolare, chiusa addirittura nel cerchio di una città come Catania, Brancati parla del mondo, di ciò che diviene, di ciò che di bello, affascinante e di negativo e di distruttivo c’è nel mondo contemporaneo. Pur essendo un grande scrittore provinciale, Brancati è un grande scrittore europeo, dimensione di solito sottolineata troppo poco, e che andrebbe scoperta e affermata molto più di quanto si sia fatto finora».

A 50 anni dalla morte, l’opera di Brancati come resiste al tempo?
«Resiste nella lucidità del suo narrare, nel rigore assoluto del suo descrivere la vita, molto lontana da quella che è l’esistenza oggi. La Sicilia di Brancati oggi non c’è più, ma Brancati con la sua capacità eccezionale di afferrare il colore del tempo, lo fa vivere per sempre. Nella sua opera l’aspetto narrativo si sovrappone a quello della scelta intellettuale, ed è molto attuale il rigore, la razionalità, il rifiuto di piegarsi ad ogni modello precostituito, ad ogni chiesa, ad ogni gruppo motivato da interessi particolari. L’unica cosa per cui Brancati combatté sempre in ogni momento e con ogni mezzo, fu per l’ipotesi di una realtà di un mondo felice». Quasi un’ossessione per lui la ricerca della felicità, beffato da una vita infelice e la morte a soli 47 anni. «Sì, fu proprio così. L’ultimo romanzo, l’incompiuto Paolo il Caldo, è una sorta di scandaglio interiore dentro questa lacerazione. Scrivendo quel romanzo si era reso conto che non era più il tempo di antiche utopie né di proiezioni comiche, né di sensuali intenerimenti per la vita che scorre e si perde. Brancati si sceglie la strada della crudeltà, dell’accanimento su se stesso e sui propri personaggi, vuole cercare a tutti i costi di trarre alla luce il fondo oscuro che mina la consistenza del suo dongiovanni siciliano, che deforma il suo rapporto col mondo, che lo allontana dalla felicità e dalla ragione».

Il saggista, il giornalista e l’uomo di teatro, rispetto al romanziere, come si colloca nel panorama letterario?
«Brancati appartiene alla linea forte della narrativa del Novecento. Credo che ci sia un rapporto molto stretto perché Brancati narratore è uno, come disse anche Sciascia, che fa una sorta d’autobiografia della nazione: rappresentando dei personaggi particolari parla di che cosa è diventata l’Italia dei suoi anni. C’è un implicito respiro saggistico, giornalistico e teatrale dentro la sua stessa narrativa. Il passaggio è qualcosa d’automatico, di spontaneo. I suoi saggi non sono mai saggi sistematici ma spunti di riflessione, movimento aperto i suoi articoli. Uno dei suoi grandi modelli in questo senso è Leopardi. Non dobbiamo dimenticare nell’opera di Brancati, il rilievo della lezione leopardiana». Si discute spesso sull’appartenenza di Brancati al fascismo, un argomento che suscita sempre polemiche. «Giovane di belle speranze, andò a Roma credendo fino in fondo nell’orizzonte fascista. Per l’eccessivo rigore politico e per la sua educazione letteraria, tra il ‘34 e il ’35 però, si staccò dal fascismo, mentre ancora diversi intellettuali che poi sarebbero diventati antifascisti, erano saldamente legati a Mussolini. Da questo punto di vista l’antifascismo di Brancati sia di grandissimo livello. Disse di aver avuto la condanna e il vantaggio di essere stato fascista e di capire il fascismo dall’interno, di averlo sofferto su di se, di capirne meglio, crescendo, le contraddizioni».

Francesco Mannoni
Fonte: Unionesarda.it il 03-12-2003 - Categoria: Cultura e spettacolo

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