Vitaliano Brancati (Pachino, Siracusa, 1907 - Torino 1954) fu impareggiabile nel rappresentare gli eccessi e le ossessioni dei suoi conterranei, in una parola la "sicilianità", un modo di essere che egli faceva dipendere da una sensibilità dolorosamente esposta. A lui ora è dedicato un volume dei "Meridiani" Mondadori (a cura di Marco Dondero, 1.778 pagine, 49,00 euro; ne è previsto anche un secondo), contenente i romanzi Sogno di un valzer, Gli anni perduti, Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio e Paolo il caldo, e alcuni saggi imbevuti del suo scetticismo lucido e implacabile. Di questo scrittore che visse completamente immerso nella letteratura e attingendo sempre, per i suoi libri, dalle proprie esperienze, parlo con lo studioso Giulio Ferroni, autore di un ampio intervento introduttivo al "Meridiano". Nota Ferroni come Brancati avesse una «intensa disposizione al comico», che lo rese capace di trattare il «dongiovannismo isolano» con spirito autocritico e satirico, ma anche con «un moto di implicita simpatia e complicità». Le sue opere contengono «una galleria di personaggi passivi e assonnati, che consumano le loro giornate nella ripetizione di tranquille, dolci e banalissime abitudini che toccano la realtà nei suoi margini più quotidiani e consueti, nel ritmo lento, addormentato e solare della provincia siciliana». - Professore, cosa ha significato per Brancati essere uno scrittore meridio-nale? «Ha significato confrontarsi, prima di tutto, con la dimensione solare del Mezzogiorno, nell’ottica di una cultura diversa. Nei suoi scritti c’è una grande capacità di osservare gli aspetti più affascinanti, più carichi di vita della sua terra». - Ci sono alcuni elementi che contraddistinguono gli scrittori meridionali? «Gli scrittori meridionali sono molto diversi tra loro e hanno un fondo cupamente tragico, perché la solarità si associa anche a una tremenda malinconia.
Anche in Brancati talvolta si affaccia questa dimensione malinconica, ma in lui c’è una volontà di salvare la vita, la felicità, la presenza dei profumi e dei colori quotidiani, pur sapendo che tutto ciò è sottoposto a contraddizioni». - Rispetto a quella di altri scrittori siciliani come Verga, Pirandello, Sciascia o Bufalino, in che cosa è diversa la Sicilia di Brancati? «È una terra sovraccarica di profumi e di colori, veramente barocca, guardata però nello stesso tempo con occhio lucidamente razionale, illuministico. Fra tutti gli scrittori siciliani, Brancati credo sia quello che più ha mantenuto uno stretto rapporto con la tradizione. Un altro scrittore dell’Illuminismo siciliano, ma molto diverso da lui perché manca del senso del comico, è Sciascia. Volendo, c’è un filo rosso che li collega: Brancati insegnava nella stessa scuola in cui lo scrittore di Racalmuto frequentava il liceo». - I temi di Brancati sono profondamente immersi nello scenario siciliano, ma nello stesso tempo appartengono a tutti: come riusciva a operare questo prodigio? «Questa è una caratteristica della grande letteratura siciliana. Sciascia parla spesso della Sicilia come metafora, perché l’isola riesce ad essere metafora del mondo. Anche parlando di una realtà molto limitata, particolare, chiusa nel ristretto cerchio di una città come Catania, Brancati parla del mondo, di ciò che di bello e affascinante, e di brutto e distruttivo c’è nel mondo contemporaneo. Pur essendo un grande scrittore provinciale, è un grande scrittore europeo, una dimensione di solito messa troppo poco in rilievo dai critici». - A circa cinquant’anni dalla sua morte, la sua opera resiste al tempo? «Resiste per la lucidità della narrazione. La Sicilia di Brancati oggi non c’è più, ma lui con la sua capacità eccezionale di afferrare il colore del tempo la fa vivere per sempre. Ed è molto attuale il rigore, il rifiuto di piegarsi ad ogni modello precostituito, a qualsiasi "chiesa" o gruppo motivato da interessi particolari.
Per una sola cosa Brancati combatté in ogni momento e con ogni mezzo: per l’ipotesi di un mondo felice». - Fu quasi un’ossessione per lui la ricerca della felicità, mentre invece ebbe una vita piuttosto infelice, che si concluse a soli 47 anni... «Sì. L’ultimo romanzo, l’incompiuto Paolo il caldo, è una sorta di scandaglio dentro questa lacerazione interiore. Si era reso conto che non era più il tempo di utopie né di proiezioni comiche, né di sensuali intenerimenti per la vita che scorre e si perde. Allora scelse la strada della crudeltà, dell’accanimento su sé stesso e sui propri personaggi, cercando a tutti i costi di portare alla luce il fondo oscuro che mina il suo dongiovanni siciliano, che deforma il suo rapporto col mondo, lo allontana dalla felicità e dalla ragione. In Paolo il caldo mise a nudo la propria esperienza, la propria "sicilitudine" con i suoi miti erotici nell’Italia post-fascista e postbellica. Il suo grande maestro di felicità era uno scrittore dell’Ottocento, Stendhal, che verificava ad ogni momento la sconfitta della felicità, e questo sentimento di sconfitta è fortissimo in Paolo il caldo.
Se Brancati fosse vissuto più a lungo, avremmo avuto qualche altra opera sconvolgente». - Brancati fu anche un ottimo saggista. «In realtà i suoi saggi appartengono alla narrativa del Novecento, mentre d’altra parte c’è un respiro saggistico nella sua stessa narrativa. Perché, come disse Sciascia, mettendo in scena dei personaggi particolari Brancati fa una sorta di biografia della nazione, descrive l’Italia del suo tempo. Il passaggio dall’uno all’altro genere in lui è qualcosa di automatico, di spontaneo. I suoi saggi non sono mai sistematici, ma spunti di riflessione. Uno dei suoi grandi modelli in questo senso era Leopardi: la lezione leopardiana è molto presente nell’opera di Brancati». - C’è un argomento che suscita sempre molte polemiche: Brancati fu davvero un fascista convinto? «Giovane di belle speranze, andò giovanissimo a Roma credendo fino in fondo nell’orizzonte fascista. Ma fra il 1934 e il ’35 se ne staccò, mentre ancora diversi intellettuali che poi sarebbero diventati antifascisti rimanevano saldamente legati a Mussolini. Il suo antifascismo fu di altissima qualità. Disse di aver avuto la condanna e il vantaggio di essere stato fascista, perché così poteva giudicare quel regime dall’interno, capirne meglio le contraddizioni. Del fascismo mette in evidenza il trionfo del luogo comune, il suo voler imporre un modello di vita che spesso sconfinava nella stupidità, dimenticando invece la complessità del reale. Si era fatto credere che la società andasse verso delle grandi mete che invece non esistevano; ad esse Brancati oppone la coscienza dell’uomo comune, il buon senso. La critica del fascismo gli vale poi anche come critica di tutte le altre prospettive totalitarie, fra cui il comunismo stalinista che vide all’opera nell’immediato dopoguerra».
di Francesco Mannoni
Fonte:
Il Giornale di Brescia il 24-06-2003 - Categoria:
Cultura e spettacolo