di Sebastiano Mallia. Anni di dimestichezza con la politica (e con la storia) mi avevano -evidentemente- "vaccinato".
Nell'aprire il pezzo (http://www.facebook.com/note.php?created&¬e_id=501690934843) che -il 4 aprile del 2009- inserivo su Pachino Globale dopo il Congresso fondativo del P.d.L., mi ero avvalso della "riserva dello storico", impedendomi di dare questa definizione all'evento a cui -giorni prima- avevo partecipato.
Ciò non toglie che allora, per quello che ho visto e che ho sperato, abbia scritto le cose che gli amici di FB troveranno qui riproposte per un confronto fra l'allora e l'oggi: chi mi conosce sa bene che, fra i miei numerosi difetti, non c'è mai stato quello di nascondermi dietro il classico dito.
E, allora, eccomi a fare un "bilancio" che ho in mente da tempo. Con il "senno del poi" su quello che avevo giudicato con il "senno del prima". Senza riserve, certo, ma con la consapevolezza che ci sarà ancora un altro "poi", la cui luce, la cui serenità di giudizio alimentata dal distacco, la cui lontananza dagli eventi, da tutti gli eventi, sarà ancora più illuminante e chiara.
Il P.d.L. non ha funzionato, nè ha mai iniziato a funzionare. Nè come lo avevo visto e proiettato nel futuro -a partire da quel congresso- nè come era stato pensato (o come si era detto fosse stato pensato) da chi lo aveva voluto.
Lo ha strozzato quello stesso "personalismo", inteso come rapporto-confronto fra le leaderships, fra le personalità, che mi sembrava poter essere la sua ricchezza. E non certo "solo" per il dualismo Berlusconi-Fini che ne ha determinato la scissione. E' stato sconcertante, per esempio, assistere ai "casi" Carfagna e Prestigiacomo, al venire alla luce di scontri e regolamenti di conti in modo così plateale. E, oggi, persino il fronte polemico Sallusti-Feltri ci dice molto dell'atmosfera che regna nel centrodestra.
Senza dire che si è rivelata disastrosa la scelta dei tre coordinatori (intesi come numero e, almeno per due su tre, come persone): l'immagine di un partito acefalo -ovvero, con la testa "data in prestito" al Governo- è davvero evidente nei fatti. Ed è vero: la responsabilità è di chi ha voluto sempre avere l'ultima parola.
In estate si è sperato che, con uno scatto d'orgoglio e di resipiscenza, il Premier potesse mettere mano ad una nuova organizzazione del partito. Era, però, una speranza sbagliata: anzitutto poiché non è pensabile che un Partito nato, possibilmente, per vivere oltre il suo fondatore stia ancora lì, fermo in attesa di farsi scuotere da lui, e non sia stato capace, in due anni, di avviarsi da solo e crescere. Senza dire che, alla fine, la spinta del leader si è rivelata una spintarella: l'invio dei "promotori della libertà", magari a distribuire qualcosa che assomiglia alla "Torre di Guardia".
Tutta questa "assenza" dal territorio, non si sà bene se per disinteresse più che per incapacità organizzativa e di idee, si è sentita pesantemente. Anche qui costellata da liti, risse e battibecchi sui giornali, ovviamente, visto che negli organi del partito non era possibile, non essendone stati formati.
E, alla fine, tutto questo non poteva non ripercuotersi sul Governo e sui numeri. Insieme a tanti altri fattori, certo, ma con un ruolo primario. Ma con conseguenze a cascata anche sugli altri Enti (Pachino, per ora, sembra un caso a parte).
E' questa, forse, la responsabilità più grave: aver fallito (o bluffato) su un partito dei moderati da costruire in vista del futuro. O, più probabilmente, non averlo mai voluto sul serio.
L'appuntamento con la storia, dopo appena due anni e mezzo, si può dire mancato: già si parla di nuovi nomi, più accattivanti e meno sostanziosi, mentre è in corso una raccolta di adesioni da altri gruppi parlamentari, fattore umiliante (a tacere del peggio) solo che si pensi all'idea di un partito che, nelle ambizioni, avrebbe dovuto raccogliere oltre il 50% dei consensi.
Ma, ed è quello che è più grave, dal 14 dicembre scorso, dalla drammatica conta con clima di sfida all'OK Corral della Camera (paradigma di un Paese drogato, che non può fare a meno degli eventi), da allora -e da prima- il governo dell'Italia è fermo al palo. Un Governo che si vorrebbe difendere perché le elezioni sarebbero il male peggiore, ma che -in realtà- ha smesso di governare, di decidere, di agire, di confrontarsi in Parlamento. Un Governo, e lo dice chi lo ha votato e voluto -certo- ma anche chi, nel livello locale, si è sempre battuto contro il parassitismo dei numeri che servono solo a campare, un governo -dicevo- che sembra stare lì, in attesa di venire "terminato" non appena qualcuno porterà a casa il federalismo fiscale.
Nè di meglio è dato vedere a Palermo dove -se Lombardo ha potuto- è anche per causa un P.d.L. subito diviso e oggi frantumato. Nè -l'ho già detto- ci si può illudere di dar vita ad un opera che è costata trent'anni e più (una realtà stile Lega nel Sud), senza il serio tentativo di organizzarla nel territorio, di riempirla con un linguaggio che non sia di sole parole d'ordine ma che, a partire dalla storia e dalla sua consapevolezza, sappia creare un'appartenenza capace di tradursi in obiettivi.
Non è cosa -mi spiace dirlo, ma i fatti parlano- per una classe dirigente come quella attuale. Non è opera che possa farsi solo a partire dall'incasellamento dell'esistente, dal rimescolamento di pedine da spostare.
Forse un'epoca è davvero al compimento: quella polarizzazione sulla leadership, che ha fatto seguito alla polarizzazione ideologica. Speriamo che la sua fase terminale duri il meno possibile.