Esce il 15 novembre «Il lungo intrigo - Dal 1943 a oggi. Per una storia segreta d’Italia», di Alfio Caruso, Editore Longanesi, premiato il 22 settembre a Portopalo nella sezione saggistica del premio PIU' A SUD DI TUNISI. Il volume raccoglie quaranta misteri più o meno irrisolti. Lo slogan è: dove finisce la verità ufficiale incomincia il vero. Mescolando fatti accaduti e fatti probabili si chiede alla verosimiglianza di raccontare che cosa può essere accaduto. Ci hanno sempre ripetuto che la Storia si nutre di misteri, ma non avevano previsto la variante Italia, dove tutto è un mistero. Anche l’unico chiarito nella sostanza, la strage di piazza Fontana nel 1969, lo rimane nella forma. E’ l’enorme prezzo pagato all’esser stati per cinquant’anni una democrazia imperfetta: ospitavamo il Vaticano e il più importante partito comunista dell’Occidente. Abbiamo accampato la pretesa di conciliare le prerogative di uno Stato libero e indipendente con l’ingombrante presenza degli Stati Uniti, costretti a sobbarcarsi le spese per garantire la nostra sicurezza nazionale. Fino alla dissoluzione del comunismo la Penisola è stato teatro della più calda delle guerre fredde. Non eravamo padroni in casa nostra e molti tifavano per gli Stati Uniti o per l’Unione Sovietica riconoscendo nel proprio ufficiale pagatore anche la Patria elettiva. Quando le democrazie parlamentari hanno vinto il confronto con la dittatura del presunto proletariato in molti abbiamo tirato un sospiro di sollievo, pur consapevoli che fosse stato il fine a nobilitare l’impresa, giacché i mezzi adoperati dai due contendenti non differivano. Purtroppo le scorie di quella guerra sorda e implacabile sono rimaste appiccicate alla nostra esistenza quotidiana.
Estratto del nuovo libro di Caruso pubblicato il 7 novembre su La Sicilia:
Il 3 settembre 1943 alla periferia di Siracusa il generale Castellano firma l'armistizio, che chiude la guerra dell'Italia contro Stati Uniti e Gran Bretagna. Dopo sessantaquattro anni rimangono ancora avvolti nel mistero i mesi e le trattative che precedettero la sigla finale.
Al Club de Pins di Algeri l'avvocato e il principe guardavano stupiti le tartine variopinte che accompagnavano robuste dosi di Cherry e di Pastis. Burro, maionese, caviale rosso e nero, cipolline, gamberi riempivano gli occhi prima ancora di riempire lo stomaco. Gli ufficiali americani usavano le tartine per aprire la strada ai ripetuti brindisi, nei quali ben presto entrarono bicchieroni di whisky con ghiaccio e soda. I due giovani siciliani capirono in quel momento che il proprio Paese mai aveva avuto la reale possibilità di vincere la guerra.
Neppure la Palermo che poteva rifornirsi al mercato nero aveva ormai accesso a quel bendiddio: persino il pane bianco era diventata una rarità, scarseggiavano l'olio, lo zucchero, addirittura il sale. E i prezzi continuavano a salire: 35 lire per un chilo di pasta, 70 per lo zucchero, 60 per l'olio, 80 per il formaggio; per il burro non bastavano 100 lire, ma il burro non si trovava al pari della carne. Quando nelle campagne di Cinisi macellavano clandestinamente un bue, arrivavano a chiedere 350 lire per un chilo. Per quanti dovevano tirare avanti con le tessere annonarie era una lotta quotidiana contro la fame.
A fine aprile dovevano ancora essere distribuiti l'olio e lo zucchero di febbraio, la pasta di marzo. I macellai avevano inventato il «quinto quarto», cioè le frattaglie: prima della guerra venivano riservate ai cani e ai gatti, adesso, in pieno '43, sorgevano dispute e miserabili aste per aggiudicarsele. Risultavano incredibilmente sparite pure le arance e le olive, vanto della Sicilia. In molte famiglie il cibo più diffuso erano diventate le carrube, che nei tanti feudi dell'isola costituivano il cibo dei maiali.
Malgrado il disagio, l'avvocato e il principe sapevano che da quella missione dipendeva il destino dell'Italia e soprattutto della Sicilia. La prima andava cambiata, il fascismo espressione di quei polentoni incolti e arroganti doveva essere abbattuto; la seconda, invece, bisognava preservarla dalle mire dei servi di Stalin.
Entrambi, infatti, conoscevano i fermenti e le discussioni che si propagavano a Palermo e a Catania. Il partito comunista accennava a uscire dalle fogne, pretendeva di avere un peso nei futuri equilibri. L'aveva raccontato Finocchiaro Aprile tornato in Sicilia per rilanciare il Movimento Indipendentista. Il vecchio politico non solo aveva accettato d'incontrare i capi comunisti, ma ne aveva anche ospitato uno nella sua casa romana. Eppure l'indipendentismo rappresentava al momento l'arma migliore per far sì che la Sicilia dei loro bisnonni, dei loro nonni e dei loro padri rimanesse identica a se stessa, immobile nelle sue fondamenta di civiltà come immobile era il suo paesaggio. Ecco il motivo che li aveva spinti ad accettare l'incontro con il colonnello del controspionaggio intento a trattare in Algeria con i nemici destinati a trasformarsi in amici.
Avevano viaggiato sui pescherecci che continuavano a far la spola fra le coste siciliane e l'Africa. Il colonnello, amico di famiglia del principe, li aveva accolti assieme agli ufficiali americani che lo trattavano con affettuoso cameratismo. Aveva spiegato che bisognava accordarsi sul modo migliore di accogliere gli Alleati e di governare la Sicilia dopo la liberazione.
L'avvocato e il principe erano consapevoli di correre rischi mortali. Nonostante gli eleganti vestiti primaverili erano ufficiali del regio esercito, l'uno capitano di un autoparco, l'altro tenente addetto alle operazioni speciali: di conseguenza potevano essere fucilati se al rientro in Italia fossero stati scoperti. Si erano, infatti, messi a disposizione di quegli inglesi e statunitensi, che in Tunisia avevano catturato la 1a Armata di Messe, ultimo baluardo in terra d'Africa. Intesa con il nemico, recitava il codice penale militare. Per loro, viceversa, si trattava di un appuntamento con la Storia.
E i giorni trascorsi ad Algeri li avevano persuasi di aver compiuto la scelta giusta. La potenza militare degli Alleati, cioè degli americani, li aveva sbalorditi: mai visti tanti carri armati, tanti bulldozer, tanta artiglieria. Era impossibile fermarli: la prossima invasione della Sicilia sarebbe stata una passeggiata. Accordarsi in tempo utile rappresentava l'unica scelta sensata.
Un cameriere in guanti bianchi offrì un vassoio di calici colmi di bevande multicolore. Alle sue spalle un altro cameriere in paziente attesa con il vassoio delle tartine con l'aggiunta di quelle al prosciutto. E chi se lo ricordava in Sicilia il prosciutto? L'avvocato e il principe accettarono i calici.
Sopraggiunse un gruppetto di ufficiali della sezione Italia dell'Oss, il servizio segreto statunitense. Erano tutti paisà, alcuni anche di prima generazione. Quindi parlavano l'italiano, ma con i due ospiti si esprimevano in dialetto siciliano: volevano essere sicuri della pronuncia in vista degli imminenti sbarchi di ricognizione sull'isola. Fu proposto l'ennesimo brindisi al futuro, all'immortale amicizia tra Italia e Stati Uniti. Uno di quelli in divisa accennò 'Ciuri, ciuri'. Si creò un'atmosfera di contagiosa complicità, tuttavia l'avvocato e il principe non si facevano illusione. Ne avevano di strada da compiere e di polvere da magiare per far dimenticare di aver militato fra gli sconfitti.
Il colonnello comparve beato in numerosa compagnia. L'avvocato guardò e riguardò prima di arrendersi all'evidenza: i civili che discutevano fitto fitto con l'esponente del Servizio informazioni militare erano i palermitani di rispetto incontrati anni prima a Tripoli.
L'avvocato c'era andato attratto dalla pubblicità sulla perla dell'Impero: per una volta la realtà aveva retto il confronto con le aspettative. La Libia e la sua capitale gli erano sembrati molto più vivi della Sicilia. I palermitani di rispetto gestivano il casinò e i principali locali notturni: vi s'incontrava una clientela internazionale che metteva in soggezione pure i gerarchi fascisti.
Balbo non amava quei siciliani piccoli e taciturni così in contrasto con le direttive del regime sul prototipo dell'italiano nuovo. Attorno al palazzo del governatore si sussurrava d'imminenti decreti di espulsione, ma non erano stati emessi e i palermitani di rispetto avevano proseguito a concludere affari e a macinare profitti fino alla caduta della Libia. E ora eccoli a scodinzolare assieme ai prossimi padroni della Sicilia. L'avvocato si domandò se il colonnello fosse a conoscenza dello spessore dei suoi ospiti. Esibiva un agio assoluto, gli alti gradi statunitensi offrivano spiegazioni su spiegazioni, i palermitani di rispetto assentivano con radi cenni del capo.
Il principe e l'avvocato furono convocati con ampi gesti dal colonnello. Le presentazioni avvennero in un clima di finta cordialità, il colonnello cercava ricordi comuni di geografia, di toponomastica, di cognomi e di lontane parentele per confermare che componevano tutti una grande famiglia. I palermitani di rispetto riservarono un sorrisino di condiscendenza al principe: il suo cognome non aveva bisogno di ulteriori chiarimenti. Scambiate le solite, inutili battute d'occasione, i tre emissari di Vittorio Emanuele III, ma non di Mussolini furono lasciati a godersi l'abbondanza del ricevimento pomeridiano. Il colonnello mostrava un'incontenibile soddisfazione: «E' fatta, è fatta», ripeteva saltellando da un vassoio all'altro.
«Ma quelli di Palermo che ci fanno qua?», chiese l'avvocato.
«Li conosci?» «So chi sono.» «Anch'io so chi sono», aggiunse il principe.
«Ci sono di mezzo i siciliani di New York», rispose allegro il colonnello. «Mi hanno parlato di tali Frank Costello e Charles Luciano, tra l'altro non credo che siano i loro veri nomi, in ogni caso mai cagati prima. Pare che si tratti di gente importante: sono stati loro a dire ai palermitani di mettersi a disposizione. Gli americani hanno creato questa sezione speciale del servizio segreto chiamata proprio 'Italia'. Lavorano alla prossima invasione della Sicilia, quando arriveranno vogliono trovare ogni cosa già sul piatto.» «Quindi la mafia è d'accordo», fu la conclusione dell'avvocato.
«E anche la massoneria. Ho trovato tanti confratelli. La massoneria italo-americana è d'accordo sulla riapertura immediata delle logge.
Lo staff di Eisenhower desidera che nelle città siciliane vengano immediatamente nominati i sindaci al posto del podestà e i nomi sono quelli forniti dagli amici siciliani: d'altronde ai loro occhi la mafia e la massoneria sono le uniche due organizzazioni che si sono opposte al fascismo.» «Che poi per la mafia non è tanto vero», disse l'avvocato.
«Non stiamo a sottilizzare», al colonnello interessava chiudere la pratica al più presto. «I prefetti rimarranno, invece, al loro posto, a meno che non si siano macchiati di qualche reato. Per essi, come per i militari, abbiamo fatto valere il principio del giuramento al Re, non a Mussolini. E dato che il Re è il garante del nostro passaggio di campo…»
«Eventualmente», chiese il principe, «i prefetti nuovi da chi saranno scelti?» «Dal governatore civile della Sicilia, che non sarà La Guardia, il sindaco di New York. Pare che non stia simpatico a Costello e a Luciano. Mi hanno parlato di un italoamericano di origine piemontese…» «Un altro piemontese?», il tono beffardo del principe fu esplicito.
«Sì, ma questo è dei nostri. Almeno così mi hanno garantito i capi della sezione Italia. Si chiama Poletti, se ho capito bene. Dunque, questo Poletti provvederà a insediare i nuovi prefetti traendoli dalla lista approntata da noi, dai nostri amici e dagli amici dei nostri amici. Insomma il nuovo ordine sociale dev'essere una cosa nostra.
Sia gli americani, sia gl'inglesi hanno capito che dove possibile bisogna conservare l'ossatura delle vecchie istituzioni per garantire un passaggio morbido delle consegne.» «Vale anche per la polizia?», l'avvocato ebbe un'espressione preoccupata. «Ce ne sarà bisogno come e più del pane. La propaganda comunista parla già d'impossessarsi dei feudi e dei palazzi.» «I poliziotti hanno giurato fedeltà a Mussolini. Gli americani hanno quindi deciso di puntare sui carabinieri. In Sicilia contano più della polizia, controllano e conoscono il territorio e hanno giurato al Re. I poliziotti coinvolti con il fascismo saranno rispediti a casa. Occorreranno un paio di mesi per coprire i ranghi con assunzioni di personale che dia ogni garanzia... A noi.» Castellano lo aggiunse in un soffio.
«Tutto a posto, allora…», disse l'avvocato.
«Per il momento. Bisognerà fronteggiare l'offensiva della Chiesa, che vedrete non accetterà di starsene in un angolino.» «Ma non c'è uomo d'onore che non vada in loggia il sabato e a messa la domenica», sogghignò il principe.
Il colonnello passò sopra l'ironia: «E poi occorrerà capire le intenzioni degli americani nei confronti di Finocchiaro Aprile e del Movimento Indipendentista.» Neppure al riparo dei robusti olivi si attenuava la morsa del caldo. Era il più classico dei settembre siciliani. Secco anche il fiumiciattolo Cassibile, dal quale prendeva nome quella frazione di Siracusa. Qui, ventitré secoli prima, Demostese e il suo esercito di 6 mila ateniesi si erano arresi alle milizie siracusane rinforzate dal corpo di spedizione inviato da Sparta. Adesso l'Italia si era appena arresa alle Potenze Alleate, formula ampollosa che nella realtà significava la terrificante industria bellica americana supportata dalla cocciutaggine degli inglesi. Un capitano statunitense uscì dalla grande tenda adibita a mensa dello Stato Maggiore e fece l'occhietto all'avvocato e al principe in attesa pochi passi più indietro.
Dopo la tensione del giorno prima, il generale Castellano aveva finalmente apposto la firma allo Short Military Agreement, la definizione tecnica dell'armistizio imposto da Roosevelt e da Churchill. L'avvocato sbirciò l'orologio da polso, le 17,20. Eppure si sudava peggio che a mezzogiorno di un ferragosto. Dallo spiazzo accanto al castelletto provenivano le grida gioiose di bambini. Nella sua casualità la Storia si era fermata a Santa Teresa Longarini, presso la vasta tenuta della famiglia Grande. Gli inglesi l'avevano soprannominata Fairfield Camp. Vi si erano installati dalla sera dello sbarco, il 10 luglio. Avevano bussato alla porta del castello di San Michele e chiesto del barone Corrado Grande, che era pure ingegnere, antifascista e in solidi rapporti con la buona società britannica grazie alla moglie Alina Strin, appartenente all'alta borghesia greca. I coniugi Grande, tra l'altro, si esprimevano in perfetto inglese. Notevole stupore aveva destato la mattina dopo, cioè l'11 luglio, il lungo corteo di jeep fermatosi dinanzi all'ingresso.
Dalla prima era balzato giù il celebre maresciallo Montgomery pronto nell'esibirsi in un compito baciamano alla baronessa Grande, affacciatasi sulla soglia.
A meno di un chilometro dal castelletto gl'ingegneri dell'VIIIa armata avevano approntato una pista d'atterraggio, nome in codice Cuba. Lì il giorno antecedente - giovedì 2 settembre - era sbarcata da un aereo da trasporto statunitense la delegazione italiana incaricata di siglare l'armistizio: il generale Castellano, che aveva trattato con inglesi e americani in Spagna e in Portogallo; il maggiore Marchesi, agente dei servizi segreti e legato, al pari di Castellano, al capo di stato maggiore, Ambrosio; il console Montanari, con funzioni da interprete e in contatto con il presidente del consiglio, Badoglio; il maggiore Vassallo, pilota personale di Ambrosio, alla guida del trimotore S 79 con cui il gruppetto aveva raggiunto Termini Imerese da Guidonia.
I quattro erano tutti in borghese, gli unici a indossare l'uniforme dell'esercito sconfitto erano l'avvocato e il principe, molto coccolati dagli ufficiali di Eisenhower e dai componenti della sezione Italia. Dopo Algeri i contatti dei due con gli agenti inviati in Sicilia dall'Oss e dall'Intelligence Service si erano ispessiti: la loro credibilità era molto cresciuta.
Nelle ventiquattr'ore che avevano preceduto la resa dell'Italia, l'avvocato e il principe si erano dovuti spendere, soprattutto con gli inglesi, per garantire la buona fede di Castellano e del governo Badoglio. Il generale si era presentato affermando di voler ancora trattare su alcuni punti dell'armistizio e che non era prevista alcuna firma. Il maresciallo Alexander, capo assoluto dell'esercito d'invasione, lo aveva equiparato a una spia e minacciato di fucilazione.
In un colloquio senza testimoni, l'avvocato aveva chiarito a Castellano che era opportuno sbrigarsi a stabilire un collegamento con Badoglio per ottenere l'autorizzazione alla firma. Poi assieme al principe si era appartato con i funzionari civili della forza d'invasione per stabilire la data di riapertura delle università siciliane e la mappa nei nuovi rettori. Il fotografo e il cineoperatore dei due eserciti vittoriosi continuavano a operare anche fuori dalla tenda. Castellano si prestava volentieri con questi e con quelli; anche Marchesi, Montanari e Vassallo furono invitati in più di un gruppetto. Gli unici a restarne lontano erano l'avvocato e il principe. Il fotografo e il cineoperatore erano stati informati di non doverli mai inquadrare.
Castellano raggiunse sbuffando i due ufficiali, che per l'ultima volta indossavano la divisa.
«Esiste un armistizio lungo, siamo rovinati...» L'avvocato e il principe si guardarono sbigottiti. «Sì, quello che il generale Zanussi ha riportato indietro da Lisbona.» «Nessuno mi aveva informato. E sono pronto a giurare che lo ignorano anche il Re e Badoglio. E' una rovina, è una rovina…», il tono del generale divenne piagnucoloso. «Sono previste clausole micidiali… Ci legano mani e piedi, a fine guerra saremo trattati come una Nazione sconfitta, non come alleati. Me le ha fatte leggere qualche minuto fa Bedell Smith.» «Ormai è troppo tardi per i ripensamenti, pensiamo a come comportarci con i tedeschi», disse il principe.
«Siamo rovinati… Ho dovuto promettere che terrò nascosti a sua Maestà e a Badoglio i contenuti dell'armistizio lungo finché i due non annunceranno pubblicamente la fine della guerra. Ma voi due lo sapevate?» L'avvocato e il principe risposero in modo affermativo. Davano per scontato che lo sapesse pure il generale: il 31 agosto aveva incontrato proprio Zanussi a Termini Imerese, possibile che non ne avessero parlato?
«Questi non vogliono neppure darmi la data esatta in cui annunciare l'armistizio. Ho spiegato che abbiamo bisogno di tempo per portare via il Re da Roma e per organizzare il sostegno al loro sbarco. Invece mi chiedono informazioni sugli aeroporti intorno a Roma. Che c'entrano gli aeroporti con lo sbarco?» I due ufficiali italiani erano stati informati dalla sera prima che per salvare Roma lo stato maggiore di Eisenhower aveva varato l'operazione Giant, consistente nell'invio di una divisione aerotrasportabile statunitense.
Quindi non sarebbe occorso che il re si rifugiasse altrove: dalla Capitale presidiata dalle truppe italiane e dai militari Usa avrebbe potuto lanciare il suo messaggio al resto del Paese.
«Allora», affermò Castellano, «servirebbe che io rientrassi a Roma. Viceversa pretendono che resti con loro. Mi trattano a guisa di un ostaggio.» «Ne ha parlato con Eisenhower?», domandò l'avvocato.
«Si rifiuta d'incontrarmi.» «Desidera, generale, che ci proviamo noi?» «Magari.» Il principe e l'avvocato andarono in cerca del responsabile della sezione Italia. Fu lui a condurli all'ingresso della tenda del comandante in capo di tutti gli eserciti alleati. Dopo un lungo conciliabolo si sporse dalla tenda e fece entrare i due italiani. Sussurrò che dovevano solo ascoltare. Eisenhower fu sbrigativo: ai Savoia conveniva accelerare i preparativi, entro pochissimi giorni sarebbe stato diramato l'annuncio dell'armistizio.
Il generale ascoltò con crescente preoccupazione il resoconto dei due ufficiali.
«Siete sicuri di aver capito bene? Io ho detto che prima di svelare l'armistizio devono aspettare fino al 15 settembre, almeno fino al 12...».