Due aforismi sulla guerra mi sono sembrati, messi assieme, fotografare bene la campagna elettorale che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Il primo, di quel gran realista di Carl von Clausewitz, ci dice che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» (non «la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi» -si badi bene- ma l’esatto contrario). Il che, mi pare, getta una qualche luce e ci fa guardare con altri occhi a tutto quanto è successo (o si è detto sia successo) da qualche settimana a questa parte nella nostra Città.
La seconda espressione, è del mio carissimo Vittorio Messori ed è contenuto in quel capolavoro che risponde al nome di Pensare la storia: “la guerra …. è sempre rivelatrice della verità”.
Unendo le due frasi è possibile affermare che in quella “guerra a freddo” che, in fondo, è la campagna elettorale (o la politica stessa, se vogliamo), molte verità si sono alla fine “rivelate”.
Alcune -personalissime- non vale la pena di affidarle a questa analisi, ma vanno conservate nel bagaglio delle esperienze.
Altre possono essere così elencate.
1. Tutti gli “eserciti” hanno mantenuto (lo dicono i numeri) un alto grado di compattezza: ha vinto chi ha saputo conservarne una misura maggiore.
Intendiamoci: con la parola “compattezza” cerco di coprire un ampio spettro di cose. Anzitutto la saldezza degli obiettivi, così come declinata in messaggi politici ai cittadini oltre che in termini di vero e proprio modo di essere delle singole coalizioni. Ne è espressione l’identificarsi della coalizione premiata dagli elettori con un progetto di centro destra, coerente dall’ultimo degli aspiranti consiglieri al primo dei rappresentanti delle istituzioni venuti a Pachino per sostenerlo. Ma, per compattezza, è possibile intendere anche il valore in se e per sé, inteso come spirito di corpo, di gruppo, che inizia, condivide e prosegue un percorso al punto dal saper mettere da parte interessi legittimi ed aspirazioni in vista dell’obiettivo. Perdere anche solo qualcuno per strada ha finito per far perdere, tout court, la guerra.
2. La sistematica e strutturale denigrazione dell’esercito avversario, o delle sue avanguardie, non basta a vincere la guerra, se queste avanguardie mantengono la loro validità e le loro capacità sul campo.
Mi rendo conto di esasperare un po’ la metafora: diciamo, traducendo, che le palate di fango propalate per mesi contro il gruppo più in vista della coalizione che ha prevalso ne avranno pure indebolito la forza elettorale (senza cancellarla, tutt’altro!) ma non hanno mai messo in discussione la capacità di quello stesso gruppo di guidare -o di spingere assieme ad altri- l’intera coalizione al successo.
3. Vincono i generali che sbagliano di meno, non quelli che si presentano meglio.
La compattezza di cui si è detto sopra è merito sì di un esercito ben amalgamato anche dagli obiettivi e da un idem sentire, ma anche delle qualità dei suoi generali. Fra queste la visibilità è importante, ma mai quanto la capacità di saper tenere la truppa e di valorizzare le proprie squadre d’assalto…
Non sono che spunti, volutamente “nascosti” dietro il parallelo “bellico”. Li lascio alla riflessione di chi legge, consapevole che serviranno ancora e sicuramente molto presto!