Il segreto di un riuscito piano di marketing di un nuovo prodotto è quello di battere la concorrenza sul tempo. Arrivare per primi sul mercato dà un preciso vantaggio strategico. Se poi non si riesce in questo intento e ci si deve immettere in un mercato con un prodotto concorrenziale già lanciato, occorre “strabiliare” riguardo alle doti del nuovo prodotto rispetto allo “scadente” vecchio prodotto.
Questa in due succinte parole l’operazione mediatica di Domenica 17 Novembre 2007 con la quale il Juan Peron della Brianza ha presentato il nuovo Partito delle Libertà (o Popolo delle Libertà o Partito del Popolo delle Libertà o come altro lo si voglia chiamare).
Ragion per cui, se le primarie del Partito Democratico avevano raccolto c/a 3,5 milioni di voti poco più di un mese fa, oggi (proprio per questioni di marketing) occorre raddoppiare la cifra dei ferventi forzitalioti accorsi in massa ai gazebo sparsi nelle piazze d’Italia.
E se allora, palesemente, votarono anche, poiché espressamente chiamati a farne parte, persone della cosiddetta società civile non tesserata partiticamente, oggi occorre dire che ai gazebo di Forza Italia sono andati a firmare anche da destra e da sinistra (???), pur di mandare a casa il Governo Prodi.
Come si vede quindi la fedele applicazione dei sani principi del marketing, ivi compreso il raccontar panzane, c’è tutta.
Ma vogliamo un attimino entrare nel merito delle “libertà” che il popolo italiano si aspetta di guadagnare da questo nuovo partito (delle libertà)?
Personalmente, posso dare testimonianze di molte libertà assicurate dai due governi Berlusconi.
Ricordo per esempio la libertà di evadere le tasse implicitamente riconosciuta dall’ultima cospicua serie di condoni fiscali messi insieme dal super ministro per l’economia Giulio Tremonti, ma anche esplicitamente riconosciuta dal Premier imprenditore in persona quando ebbe a dichiarare che evadere le imposte in una certa misura è una sorta di autodifesa.
Ora su quest’ultima affermazione potrei, anch’io, trovarmi d’accordo ma se la faccio ricoprendo la carica di Capo del Governo dovrei quantomeno aver cura di far diramare un’apposita circolare dell’Agenzia delle Entrate con la quale si molli la presa su quanti, quasi ridotti al lastrico da una pressione fiscale enorme, vengono pescati in seguito ad accessi, verifiche, controlli incrociati, liste selettive, sorteggi, ecc… ad aver evaso meno del 30% del proprio fatturato.
Altra libertà che mi viene in mente è quella di procurarsi introiti miliardari (in euro) con un affollamento pubblicitario selvaggio che travolge ogni tipo di autoregolamentazione. Anche questa è una libertà che, credo, il nuovo partito (delle libertà) voglia continuare a garantire, e pazienza se ad usufruire di questa libertà sono praticamente solo due gruppi televisivi a livello nazionale (RAI e Mediaset), non potendo certo considerarsi seria, in termini di raccolta pubblicitaria, la concorrenza che gli viene da altri piccoli gruppi.
Ancora parlando di libertà televisive mi immagino che si voglia estendere la libertà di produrre alcuni dei format più bolsi, demenziali e sguaiati del mondo occidentale che tanto bene contribuiscono al cretinismo giovanile, o quell’altra fondamentale libertà di far cacciare dalla televisione (pubblica) comici e giornalisti scomodi.
Poi penso che il nuovo partito (delle libertà) vorrà occuparsi di attività legislativa. E qui mi viene in mente il grande tema della giustizia. Sulla scia di una già eccellente produzione della passata legislatura (depenalizzazione del falso in bilancio, legge Cirami sul legittimo sospetto, la legge salva-Previti sull’accorciamento dei termini di prescrizione, ecc…) si potrebbe coltivare la libertà parlamentare di promulgare una legge che vieti a qualsiasi magistrato (di ogni ordine e grado) di indagare sulle attività (lecite e non) di chiunque abbia la tessera del nuovo partito.
Infine occorre difendere la libertà dei pochi oligarchi di partito (qualche migliaio di persone in tuta Italia) di poter scegliere i candidati alle cariche elettive anziché consentire che a scegliere siano gli elettori e, quindi, difendere a tutti i costi l’attuale legge (porcata) elettorale.
Fin qui la mia personale (e sarcastica) ironia.
La triste realtà è che la politica si fa con i numeri e con i soldi e né l’uno né l’altro prevedono che alla base ci debbano anche essere onestà e verità.
L’impero mass-mediatico fatto di giornali e televisioni è ampiamente in grado di convincere (come ha fatto fin dai tempi della “discesa in campo”) milioni di italiani che le libertà di cui hanno bisogno sono del tipo sopra elencato.
Il plebiscitario consenso con cui masse di persone, molte delle quali non godono neanche di libertà economica (nel senso di libertà dal “bisogno”), plaudono al ricco signore che si erge a difesa delle libertà, dimostra solo che sono state, per moltissimi, lese le libertà di pensiero e di giudizio.
Giancarlo Barone
Pubblicata da:
Giancarlo Barone il 20-11-2007 11:49 in
Opinioni
Riporto questo articolo di Francesco Merlo..sul Popolo...L'articolo è pubblicato nel sito dei radicali
Quanti abusi in nome del popolo
• da La Repubblica del 20 novembre 2007, pag. 1
di Francesco Merlo
Ha tirato fuori una parola ormai insignificante Silvio Berlusconi per dare nome al suo nuovo partito - il partito del popolo -, una parola che non definisce più una realtà, una parola che non nomina, che non dice nulla perché il popolo è, per antonomasia, il non-luogo semantico della politica.
Nessuno sa definire il popolo, che non è la classe di Marx, non è la moltitudine della nuova mistica rivoluzionaria alla Toni Negri, non è la folla solitaria di Ortega, non è la gente di Sergio Endrigo, non è la curva sud degli ultra, non è il pubblico della democrazia americana, non è l'audience della televisione, non è il mercato dei consumatori.
Non è la comunità spontanea, non è la società weberiana, non è l’insieme degli eletti e nemmeno degli elettori, non è un paese in guerra, non è il terzo stato, non è la plebe, non è nemmeno il protagonista delle canzoni rivoluzionarie — «avanti popolo alla riscossa» o «el pueblo unido jamàs sera vencido» — che sono ritornelli tanto nostalgici quanto ridicoli, da cantare come si canta «ciuri ciuri».
E difatti la parola popolo resiste solo nell'accezione anglosassone, folk in inglese e volk in tedesco, che è il pittoresco, è il folklore, è il mondo che abbiamo perduto, non il sostantivo dell'indistinto ma l'aggettivo del semplice e dimesso, e anche dell'etnico, nel senso profondo di sangue e terra: c'è il popolare della destra (volkisch) che rimanda ai furori germanici e c'è il popolare della sinistra che rimanda ai canti, alle musiche, ai proverbi. E possono essere popolari i peggiori vizi della folla,le orecchie del pettegolezzo, le dicerie e i venticelli delle calunnie. Ma anche i più efficaci rimedi medici sono popolari, come le migliori ricette di cucina. In democrazia, la sovranità è sempre popolare. Ma «in nome del popolo italiano» si esercitano sia la giustizia sia l'ingiustizia. «Noi, popolo degli Stati Uniti...» è l’incipit della Costituzione americana. Uccidersi a vicenda nella nomenklatura dei regimi comunisti era il modo più sicuro di risolvere «le contraddizioni in seno al popolo».
Come si vede, popolare è meno insignificante di popolo. Sicuramente non è solo un alibi linguistico, non è solo l'ipocrisia delle finte democrazie comuniste (come la Cina popolare, per esempio) che è la stessa ipocrisia delle "banche popolari" italiane che si blasonano ancora con l'aggettivo pur non essendo più le risorse dell'Italia contadina e cattolica, con l'azionariato diffuso e il piccolo risparmio investito in attività marginali ed agricole. In fondo il merito della parola popolare è quello di togliere pesantezza alle cose grevemente oscure, spostarle dalla realtà e renderle idealmente aggraziate, armarle di ingenuità, di naturalezza e di immediatezza. Il parlare scurrile, per esempio, viene giustificato e, persino apprezzato, perché sarebbe popolare. E così le scorrettezze e le sgrammaticature vengono fatte passare per virtù di popolo, per realismo, per semplicità.
Tanto più che oggi popolare significa anche di larga diffusione, di forte consenso interclassista, di simpatia, e in questo senso Berlusconi è sicuramente un personaggio popolare — di grande popolarità — e può anche darsi che torni ad essere il più votato dagli elettori italiani, ma i suoi gazebo contro Prodi non sono, come si dice spalmando retorica, «adunate di popolo», non sono «le masse che avanzano», non sono «il popolo che si agita», «il popolo che prende coscienza» né, tanto meno, il popolo della politica, il popolo di Milano, il popolo dei fax, il popolo di Internet, il popolo delle partite Iva, il popolo di Seattle, il popolo dei no global, il popolo della notte, il popolo come primo (o ultimo) rutto della demagogia.
Può invece darsi che qualche volta gli elettori di Berlusconi siano il folk, che è tradizione e patrimonio, ma mai il people che può essere composto da due persone o da tutta l'umanità. «We're gonna get the folks who did this» disse Bush il 12 settembre, nella prima conferenza stampa dopo l'attacco alle Twin Towers: «prenderemo i folks (e voleva dire la gente? o i popolani? o i poveracci?) che hanno fatto questo». La stampa americana lo prende ancora in giro per i nemici trasformati in folks, per i terroristi chiamati gente, per gli uomini del Satana islamico diventati popolo. Nell'inglese degli americani «how are your folks?» significa «come stanno i tuoi?», e my folks sono i miei, la mia famiglia. Ancora «That's all folks!», questo è tutto gente!, è il tormentone degli eroi dei fumetti: di Bugs Bunny, Daffy Duck, Titti, Silvestro, Taddeo, Willy il Coyote, Beep Beep...
Eppure se si cerca "folk" in un buon dizionario inglese imprevedibilmente si trova oltre a popolo, gente e razze, anche band of warriors, banda di guerrieri. Certo, è vecchio inglese, ma in fondo è lo stesso sapore vaghissimo che c'è ancora nella parola italiana "popolo", quel significato lontano, la cui forza stava tutta nel senatus populusque, popolo nel senso militare della Repubblica romana, vera democrazia contadina affidata alle armi, al verbo populor che vuol dire devastare, saccheggiare, desolare, e in senso traslato consumare e guastare. Il populus, contrapposto da un lato agli aristocratici e dall'altro alla plebe, era fatto di piccoli proprietari terrieri che usavano il vomere, vale a dire la lama dell’aratro, sia per tagliare le zolle della propria terra sia, impugnandolo come una spada, per tagliare la gola ai nemici. E populatio significa infatti saccheggio, devastazione, preda e bottino.
Dunque davvero è sepolta l'anima della parola popolo nell'uso e nell'abuso, nell'usura del tempo, anche se rimane difficile capire come abbia fatto una parola a diventare insignificante, a perdere ogni aderenza con la realtà fosse pure un'aderenza ideale. Machiavelli per esempio usava ancora il popolo nell'accezione romana, voleva rilanciare il popolo armato contro l'uso dei mercenari. E nel socialismo ottocentesco il popolo era il titolare della bandiera rossa, dunque dell'avvenire, e la casa del popolo (chi ricorda il romanzo?) era una costruzione che mai si portava a compimento.
Nel Risorgimento dicevi popolo e capivi che bisognava buttare fuori lo straniero. Era sinonimo di nazione e di Patria, magari con la connotazione religioso-mazziniana del massone che santificava il popolo: lo sostituiva ai santi. Il popolo della prima guerra mondiale fu "carne da cannone" secondo il linguaggio dell'antimilitarismo inarco-socialista.
Poi nel fascismo il popolo diventa oceanico, una figura spettacolare del nazionalismo imperialista, un'opera di coreografia della grande proletaria, alla quale «è fatto assoluto divieto - diceva un editto di Achille Starace — di portare il colletto della camicia nera inamidato». E ancora nel dopoguerra aveva un senso dire popolo, e non solo per la sinistra che si riaggancia al Risorgimento e con "il blocco del popolo" ripropone Garibaldi, ma anche per i cattolici che organizzano il popolo dei credenti, con le parrocchie che diventano il popolo di Dio...
Nessuno può dire quando esattamente la parola ha smesso di significare ed è diventata la risorsa difensiva delle teste confuse, il marchingegno retorico che permette di giustificare, senza peraltro esibire alcuna reale giustificazione, qualsiasi politica, da quella comica di Grillo a quella di Berlusconi, che, volando da una insignificanza all'altra, potrebbe persino ribattezzare il giornale di famiglia Quotidiano del popolo, come in Cina.
Perché no? Berlusconi tenta, con il piglio plebeo, il suo ultimo miracolo e ci prova, tutto solitario, con la parola popolo. Sa che in Italia chiunque riempie di rancori una piazza, o affoga Internet di cattivi umori, o fa botteghino con gli sberleffi, o viene applaudito nei talk show, o affolla piazza San Giovanni per un concerto... Insomma chiunque partecipa al lento sfaldarsi del nostro ordine civile lo fa con il popolo dalla propria parte: tutti populisti senza popolo, tutti pronti a lusingare una parte di folla, a sfruttare le sue paure e ad alimentare i suoi pregiudizi, a trasformare il mal di pancia in macchina di consenso e di attrazione, in nome del popolo che non esiste, abusando di una parola che ormai suona peggio di una parolaccia