Frammento tratto dal libro di Sergio Taccone “Dossier Portopalo – Il naufragio del Natale 1996 - Eos dl Edizioni, 2006, Cap. III: A proposito dei fatti”
QUALCHE DUBBIO SUL RELITTO
... Ma quello mostrato dal Rov è il relitto del F-174 naufragato alla fine del 1996? Qualche dubbio, basato su elementi non trascurabili, va avanzato, chiarendone le ragioni. Le foto delle riprese effettuate con il Rov, inserite nel website del quotidiano romano, e le immagini passate in numerosi programmi televisivi, non mostrano mai il mascone di prua del relitto, ovvero la parte dove si trova il nome identificativo della barca. Circostanza strana, questa, poiché non pochi subacquei professionisti alla domanda ‹‹come si fa a dimostrare in modo inoppugnabile che ci si trovi in un determinato relitto?››, hanno risposto: si fotografa il mascone di prua. È in quel punto, infatti, che c’è la sigla identificativa del relitto (un mascone si trova anche a poppa). Ma analizzando minuziosamente le immagini del Rov (quelle mostrate in tv e su internet) non c’è traccia del nome.
E non sarebbe questa, del resto, l’unica ragione di perplessità. I naufraghi sopravvissuti dichiararono che dal meeting-point, dove fu eseguito il trasbordo degli immigrati dalla Yioahn al barcone di legno, si vedevano le luci della costa siciliana. Sulla base di questo ulteriore presupposto la Procura di Siracusa proseguì nell’indagine. Dalle dichiarazioni dei sopravvissuti si trovava la conferma indiretta che quel punto di trasbordo era vicino alla costa o, in ogni caso, all’interno delle acque territoriali italiane. Invece, l’inviato di Repubblica sostiene che anche a diciannove miglia di distanza e in una notte di tempesta, con condizioni meteomarine difficilissime – particolare non certo secondario – sia possibile vedere le luci della costa. Per non pochi pescatori di Portopalo, molti dei quali con una buona esperienza marinara alle spalle, con il mare in burrasca (e nella notte del naufragio, ripetiamolo, le condizioni atmosferiche erano pessime) è molto difficile, anche se teoricamente non impossibile, vedere da 19 miglia a largo le luci della costa siciliana.
Interessante è ciò che scrive Dino Frisullo nel suo dossier sulla vicenda pubblicato nel settembre 1997 su Narcomafie. ‹‹Dove è avvenuto il naufragio? – si chiede Frisullo – I marinai maltesi indicano un punto esatto: 30 miglia a nord-est di Malta, 40 a sud di Capo Passero. A lungo è circolata questa indicazione: ma probabilmente non è il luogo dove giace il relitto (impossibile da conoscere in partenza da Malta), ma il luogo di appuntamento fra le due navi. Da quel punto hanno navigato per un’ora e un quarto, secondo Shakoor – aggiunge Frisullo – e forse qualcosa in più se il trasbordo è avvenuto all’1,30 di notte e la Yiohan è ripartita quasi subito verso la Grecia, dopo il rapidissimo naufragio, alle 3,30. Almeno 90 minuti di navigazione, dunque: sufficienti per doppiare Capo Passero ed entrare nella parte meridionale del golfo di Noto, dove sostano le petroliere e si vedono le luci di Pachino, Marina di Noto, Avola.
Dunque in acque territoriali italiane. Il 30 gennaio due corpi restano imbrigliati nelle reti dei pescherecci Ambra e Gulia, al largo di Lampedusa: l'autopsia situa la morte a un mese prima, un corpo umano in mare percorre, con le correnti, 24 nodi al giorno e in 20 giorni può attraversare il canale di Sicilia. Molto più tardi, in giugno, altri 2 corpi affiorano a nord del possibile naufragio: uno di loro, trovato presso la penisola Magnisi nella zona industriale di Siracusa, ha indosso i resti di tre paia di pantaloni, come fanno i clandestini per non portare bagaglio a mano quando sbarcano››.
C’è, infine, la testimonianza, rilasciata al processo in corso a Siracusa, di uno dei sopravvissuti di quel naufragio, il pakistano Ahmad Shakoor. Nell’udienza del 17 novembre 2004 Shakoor parla dell’attimo esatto della collisione tra la Yiohan e la carretta maltese che, in seguito all’urto, si spezza in due tronconi. Il relitto mostrato da Repubblica sembrerebbe, invece, intero. Che si tratti di un altro relitto, collegato ad un altro naufragio? L’eventualità non sarebbe da scartare, anzi. Se queste supposizioni trovassero conferma, riprenderebbe corpo l’ipotesi, accantonata dopo il ritrovamento del relitto nel giugno 2001, che il naufragio fosse avvenuto in acque territoriali italiane. Circostanza che fu rafforzata, nel maggio del ’97, dal ritrovamento a largo di Augusta di un cadavere ‹‹compatibile con il naufragio››. Inoltre, c’è il particolare, già riferito prima, riguardante il capitano El Hallal, il quale, rivelando subito le coordinate esatte del punto del naufragio, poteva evitare alcuni mesi di custodia cautelare in carcere. Sarebbe stato un elemento a suo immediato vantaggio, anche se non a sua discolpa, dichiarare subito che la collisione si fosse verificata a 19 miglia dalle nostre coste, in acque internazionali. Invece niente di niente: ci vuole qualche anno e le immagini del relitto che Repubblica mostra dagli abissi siciliani!
Altri elementi, in grado di rafforzare alcuni dubbi sull’identità del barcone, emergono dalla lettura comparata degli articoli che Bellu ha scritto per Repubblica nel giugno 2001 e del libro che lo stesso ha pubblicato tre anni dopo. Il 14 giugno 2001, infatti, il giornalista sardo scrive in un pezzo per il quotidiano di Largo Fochetti: ‹‹Prima di allora c’era stata la segnalazione, a Malta, del naufragio di un ferry-boat individuato con la sigla F-174, ma non era stata messa in relazione con il naufragio. Ora si sa che il proprietario, Marcel Barbara, annegò assieme ai clandestini››. Il giorno dopo (15 giugno 2001), sempre su Repubblica, Bellu scrive: ‹‹E sembra di vederlo Marcel Barbara, comandante maltese, complice dei criminali della ‘Yiohan’, quando si accorge che il carico è eccessivo, che le onde coprono la sua bagnarola››. Nel 2001, dunque, Bellu fa riferimento a Marcel Barbara come comandante e proprietario del barcone di legno che è affondato. Tre anni dopo, però, nel suo libro, l’autore dello scoop del relitto fantasma scrive che la barca F-174 è stata acquistata dal pakistano-maltese Thurab e che Marcel Barbara è soltanto un maltese che lavora come pulitore di spiaggia, aggregato all’equipaggio del barcone all’ultimo momento. Barbara, insomma, in tre anni viene fatto passare, dallo stesso autore, da un ruolo di comandante-proprietario della carretta di legno ad uno equivalente, all’incirca, a quello di un mozzo. Un dettaglio da non trascurare per ricostruire la vicenda in tutti i suoi passaggi ed avere conferma di alcuni punti ‹‹oscuri›› o, comunque, poco chiari. Le conclusioni che si possono trarre da questo ragionamento sono semplici: tanti elementi differenti nello stesso fatto non possono passare sotto silenzio e forse nessuno, prima d’ora, ha fatto una lettura comparata di quello che uno stesso autore (il giornalista Bellu) ha pubblicato nel 2001 (su Repubblica) e poi nel 2004 (nel libro I fantasmi di Portopalo). Quelle appena elencate e descritte sono ipotesi, dubbi, diversi indizi convergenti. Il giornalista di Repubblica, autore del ritrovamento del relitto, ignorando tutte queste possibili e plausibili obiezioni e controdeduzioni, respingendole con sdegno (durante il convegno svoltosi a Portopalo il 26 dicembre 2004) e gettando il discredito su chiunque abbia osato farle notare, ha portato avanti un’altra strategia che comprende una precisa accusa agli agenti di polizia del Commissariato di Pachino (a sette chilometri da Portopalo), diventati quasi dei complici in un’azione d'accerchiamento e isolamento del pescatore - ex assessore- testimone- guida, fulcro dell’inchiesta giornalistica sulla ‹‹nave fantasma››.
Nel libro ‹‹I fantasmi di Portopalo›› si parla, infatti, di un rapporto di polizia, inviato alla Procura della Repubblica di Siracusa, circa le voci che circolavano in ambienti marinari sui cadaveri ripescati. E quando viene avanzato il dubbio che il tesserino di Anpalagan non fosse stato recuperato nel 2001, ma nel ’97 e che il pescatore sarebbe potuto rientrare tra coloro che pescavano i cadaveri, ecco, allora, il collegamento, effettuato dal giornalista di Repubblica, con la mentalità mafiosa e gli ambienti controllati dalla mafia dove ‹‹si adopera la legge soltanto per eluderla›› (come scrive Bellu). Il giornalista sardo riporta, inoltre, una notizia trovata su Internet (ma evitate di cercare, nel libro, il sito che l’avrebbe pubblicata, è fatica sprecata) riguardante alcuni pescatori locali che avrebbero difeso personaggi finiti in galera (per mafia) nel ’99 al grido di ‹‹Vogliamo pagare il pizzo!››.
Notizia fasulla, manco a dirlo, destituita del benché minimo fondamento di verità poiché non c’è mai stata alcuna difesa di mafiosi da parte dei pescatori portopalesi, taglieggiati o no, men che meno al grido di ‹‹Vogliamo pagare il pizzo!››. È opportuno ricordare, a questo punto, che la Corte d’Appello di Catania ha assolto, all’inizio del 2003, tutti gli astatori portopalesi del mercato ittico accusati di essere i collettori del pizzo nella struttura portuale di Portopalo. Anche di questo fatto, così importante e sostanziale alla luce della (pseudo) notizia dei cartelli inneggianti al pagamento del pizzo, nel libro di Bellu non vi è traccia né riferimento di sorta. Solo qualche flash per perorare, invece, il teorema, la parola d’ordine/magica su cui si regge un impianto accusatorio in grado di pervenire a conclusioni spendibili, anzi, riscuotibili, presso l’opinione pubblica e in sede politica: ‹‹Portopalo è un ambiente controllato dalla mafia››.
Ma torniamo al tesserino ritrovato in mare. Ecco il testo della relazione del dirigente del Commissariato di Polizia di Pachino, inviata alla Procura di Siracusa, già citata in precedenza: ‹‹Questo ufficio ritiene altamente probabile che a rinvenire il documento sia stato proprio il Lupo Salvatore, non escludendosi che quest’ultimo possa essere stato uno dei pescatori che, subito dopo il naufragio, rinvennero i cadaveri. Ma vièppiù, infatti il documento in questione risulta in ottimo stato di conservazione e appare improbabile che esso sia stato rinvenuto pochi mesi orsono, quindi è verosimile che dopo il rinvenimento sia stato conservato, piuttosto che consegnato agli organi competenti nonostante vi fosse il fondato motivo di ritenere che esso potesse essere appartenuto ad uno dei naufraghi del Natale 1996››.