Il voto c’è stato.
E’ ufficialmente partita la nave del Partito Democratico e, se non affonda già in rada prima di uscire in mare aperto (rischio quanto mai concreto), potrebbe traghettare l’Italia verso un reale bipolarismo qualora anche i partiti di centro destra vogliano accettare la sfida di modernizzare veramente la politica in senso riformista e semplificarne il panorama troppo condizionato da troppi protagonisti più simili a teatranti che a seri amministratori della cosa pubblica.
Le reazioni al voto di domenica vanno dall’entusiastico per i quasi 3,5 milioni di votanti a livello nazionale, al “moderatamente soddisfatto” per gli esiti del voto a livello strettamente locale con i 544 votanti a Pachino e gli oltre 100 di Portopalo.
Personalmente non provo grandissima soddisfazione per il numero di votanti locali, anzi ritengo il risultato qualcosa di molto modesto.
Le cause di questo parziale insuccesso non possono essere certo addebitate esclusivamente al comitato promotore ed al suo coordinamento organizzativo, in parte poco democraticamente “indicato” dagli organismi partitici provinciali (per due terzi) ed in parte eletto dagli aderenti al comitato. Tuttavia è necessario che tutti i partecipanti (nessuno escluso) ne prendano atto e magari si convincano che, se scarseggiano i risultati, bisogna fare una seria auto-analisi.
Allo scarso successo ha concorso (credo) anche il particolare sentimento di repulsione che la “politica” attira a livello nazionale e di repulsione/indifferenza di cui gode a livello locale.
Così, se c’era da rimboccarsi le maniche e lavorare prima del voto per far partecipare quanta più gente possibile, a maggior ragione c’è da lavorare adesso per raccogliere quante più adesioni possibili a questo nuovo partito.
L’intento è quello di raccogliere, nella cornice che si va delineando, le migliori risorse che il territorio possa esprimere perché non può e non deve accadere che questo nuovo contenitore possa attirare gli appetiti di tutti quelli che, nel tempo, hanno formato una nuova categoria professionale, ovvero quella di coloro che vanno di qua e di là esclusivamente per guadagnarsi quel centimetro quadrato di visibilità e potere personale.
E’ quella che, a livello nazionale, è stata definita “la casta” ovvero una massa compatta di mestieranti della politica intenta a succhiare quanto più denaro/clientele/potere possibile dalle risorse dello Stato e che si confonde talmente bene con i (non molti a dir la verità) politici seri da aver determinato la generalizzata avversione verso la politica in se.
Casta che a livello locale si esprime attraverso le degenerazioni a cui assistiamo oggi dove, tanto per fare un esempio concreto e sotto gli occhi di tutti, viene quasi considerato normale che ogni singolo consigliere di una maggioranza “nana”, che cioè non può governare ma solo evitare di cadere, possa esprimere il suo personale “assessore di riferimento” il quale può anche essere parente stretto del consigliere o essere in condizione di elargire incarichi a parenti del consigliere medesimo. Quindi, alla ricerca di questi spazi di condizionamento, gli attori politici si spostano in continuazione da una formazione ad un’altra e, molto spesso, ne creano di nuove e bizzarre dove, dietro altisonanti paroloni pubblicamente urlati relativi a “progettualità” e “governabilità” e “territorio” e “interessi della collettività” alternano, nelle private sedi dei “vertici”, altre parole del tipo “che c’è per me?”
Ecco che allora il nuovo partito deve assolutamente tentare un difficilissimo equilibrismo tra l’attirare quante più persone possibili che, nel contempo, abbiano anche le necessarie “qualità morali” e scoraggiare i “mestieranti” del “che c’è per me?”.
Contemporaneamente, nel fare questo deve evitare alcuni rischi concreti che già si intravedono.
Il primo è quello di dividersi in correnti e la cosa è molto più di un rischio potenziale.
Basta pensare al fatto che in questo partito vanno a confluire esperienze e bagagli culturali diversi e che se l’approccio mentale non è quello di “fondersi” per trarre il meglio da ciascuna esperienza ma piuttosto quello di conservare a tutti i costi “le proprie radici” (difetti compresi) allora il rischio “correnti”, con quel che ne può conseguire in termini di conflittualità interna, diventa quasi una certezza.
Il secondo, strettamente interconnesso con il primo nel senso di poterne essere sia causa che effetto, è quello di trovarsi a dipendere dai giochi di potere degli organismi superiori (provincia e regione) e dei vari personaggi che, in antagonismo fra di loro, portino fin dentro la struttura locale quelle spaccature che si tenterà di evitare in proprio.
La sfida va comunque raccolta e va portata avanti perché l’alternativa è quella che già viviamo, cioè trovarci in un contesto politico/amministrativo in cui sono in pochissimi a non vergognarsi e del quale però tutti siamo responsabili nella misura in cui ci limitiamo a lasciare gli spazi a beneficio degli avventurieri.
Giancarlo Barone.
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Giancarlo Barone il 21-10-2007 19:20 in
Opinioni